E così, prendendo il percorso più lungo ma maggiormente fruttifero della spettacolarità narrativa hollywoodiana, invece di quello più corto ma di questi tempi impervio rappresentata dalla letteratura libraria, Rousseau torna a far capolino. E lo fa sempre con quella pericolosa tentazione di trecento anni fa, stavolta però nutrita da una cassa di risonanza di massa da far tremare le vene e i polsi.
Sì, perché Avatar - La via dell'acqua non è solo un grande blockbuster destinato a sbancare il botteghino, a invadere i social (finora, in realtà, tiepidamente coinvolti) e ad estrinsecarsi attraverso un fitto e pervasivo sistema di quello che Henry Jenkins ha chiamato “storytelling transmediale”. Qui siamo già oltre, siamo già alla riedizione del falso mito del “Buon Selvaggio” che diviene strumento per minare alla base la stessa cultura che l'ha generato.
Un passo indietro: cosa sosteneva Rousseau? Presto detto: partendo da un humus filosofico in cui già qualche romantico vedeva l'uomo saggio come un individuo che in piena coscienza sceglie di ritirarsi dalla vita civile per godere dei piaceri che unicamente la serenità dell'ambiente rurale può garantirgli, il nostalgico filosofo ginevrino nel suo Discorso sull'ineguaglianza (1754) arriva a sostenere che la società civile genera disparità ed è quindi intrinsecamente un male, e che l'origine della civiltà sia da individuare nel momento in cui ci fu un primo essere umano che recintò un pezzo di terra e disse “Questo è mio”.
Nella visione di Rousseau, quindi, per evitare il male sarebbe sufficiente che l'individuo, buono per natura (quando ha pranzato) e reso malvagio solo dalle istituzioni, si lasciasse alle spalle la civiltà. Voltaire, a cui il pensatore svizzero inviò il proprio saggio, rispose in maniera tagliente “Non fu mai impiegata tanta intelligenza allo scopo di definirci tutti stupidi”, ma forse quest'ultimo si ricrederebbe, se vedesse il livello toccato dalla macchina di propaganda hollywoodiana.
Tra una metafora ecologica pressoché inesistente e dialoghi al limite del surreale, Avatar-La via dell'acqua ripresenta infatti, papali-papali, le teorie di Rousseau. Gli abitanti del pianeta Pandora sono rappresentati come poveri in spirito che vivono in contatto con la natura, a cui i cattivi colonizzatori statunitensi vogliono imporre la loro civiltà, e intendono farlo da subito per mezzo delle armi: è quindi fisiologico che, invece che farsi sottomettere, i nativi imbraccino le armi contro i perfidi invasori.
Superficialmente tale messaggio è chiaramente condivisibile, e anzi, nessuna persona dall'animo retto oserebbe contrapporvisi. Ma quel “superficialmente” è la parola-chiave: ciò a cui bisogna fare attenzione, infatti, è il sottotesto, quello che striscia come un rettile e si insinua nell'inconscio, generando autonomamente pensieri che, se arrivassero da fuori, sarebbero quantomeno rielaborati, se non addirittura respinti.
Tale sottotesto suggerisce subdolamente che la storia dell'Occidente sia tutta composta di violenta sopraffazione, e ciò rappresenta una colpa collettiva per la quale, secondo quel puritanesimo che negli Stati Uniti trovò più seguaci che in Europa, è necessaria una espiazione altrettanto collettiva. La quale consiste da una parte nel liberarsi della propria cultura e abbracciare acriticamente quelle altrui, in quanto ritenute senza macchia, e dall'altra nell'operare continui e non richiesti risarcimenti verso le etnie un tempo sottomesse.
Un anno prima di salire al soglio pontificio, l'appena defunto Joseph Ratzinger disse che c'è “un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico (...). La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie”. Un abbandono che parte da Rousseau e, per quanto possa apparire bizzarro, tocca anche l'ultimo Avatar.
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