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Fabio Celoni: Disney, Totò e non solo

Autore completo e gradevolissimo conversatore, Fabio Celoni si confessa a 360# gradi in questa lunga intervista, spaziando tra Disney, Totò, il piacere della narrazione e il futuro che ci aspetta. E con questo vi lasciamo alle sue parole.

Fabio Celoni. Disegnatore, sceneggiatore, autore, artista. Ieri Totò, oggi Zio Paperone. C’è qualcosa che lega i due?

La fatica che ho fatto per finirli! Scherzi a parte, non trovo particolari punti d’unione tra i due personaggi, uno reale e l’altro immaginario, ma entrambi straordinari. Di certo, quello che li lega ai miei occhi è la passione che ho per entrambi, da una parte il più grande comico italiano di sempre, un vero genio, e dall’altra uno dei più grandi personaggi a fumetti di sempre, a mio avviso il più umano tra quelli disneyani, il più autentico e sfaccettato. Paperone cerca l’oro, ma la vera miniera d’oro è lui. E parlando di geni, il Carl Barks che ha creato Paperone lo era di certo.


La tua ultima fatica è una storia a puntate su Topolino che riprende e riscrive un immenso classico di Romano Scarpa, Paperino e le Lenticchie di Babilonia. Perché hai sentito bisogno di mettere mano a questa storia? Qual è stata la scintilla che ha dato il via a tutto?

L’idea della storia del Destino di Paperone risale a circa dieci anni fa. Inizialmente avrei dovuto svilupparla con Paolo Mottura, poi in pratica l’ho portata avanti da solo, soggetto, sceneggiatura e disegni. Si parla di anni di lavoro. Quando si è insediato Alex Bertani ho pensato di proporgli il soggetto, che gli è piaciuto subito moltissimo. Anzi, voglio di nuovo ringraziarlo per tutto il supporto e per aver sempre creduto in questa lunga e complessa storia “shakespeariana”, come l’aveva definita). Inizialmente, la saga non prevedeva la citazione alle lenticchie di Babilonia e quindi nemmeno alla storia di Scarpa, pur restando sostanzialmente la stessa che poi è apparsa su Topolino. Il Destino di Paperone si componeva di un fil rouge che univa le 5 storie, Paperone era nello stesso stato psicologico di frustrazione per un affare sballato e aveva pensieri da “fine di un ciclo”, un po’ inediti per il fumetto disneyano. Il fantasma, ovvero la sua stessa paura di fallire, ma anche, evidentemente, il suo desiderio di rinascere, gli proponeva la sfida per salvare i suoi soldi ma soprattutto le sue memorie, quindi, in definitiva, sé stesso. Parlandone in redazione Panini e con Disney, in varie riunioni, è venuta fuori l’idea di “agganciare” la storia a quella di Scarpa, per giustificare ancora di più lo stato di profonda frustrazione di Paperone. Quindi, ho riscritto e creato nuovi passaggi per inserire il leitmotiv delle lenticchie, decidendo di usarlo come escamotage per la “ricrescita del germoglio”, che si può intendere anche come lo stesso spirito di Paperone. Volevo che non fosse un “colpo di fortuna” a farlo rientrare in possesso dei suoi averi, ma la sua tenacia e il suo talento. Infatti, lui getta la lenticchia a terra e la distrugge: non ne ha mai avuto bisogno. Questa non è una storia sui soldi di Paperone, ma sul suo spirito. Sul suo cuore indomito e avventuroso, e sul recupero della parte più nobile e autentica di sé stesso. Ma il monologo finale che fa a sé stesso, affrontando la sua paura, voleva essere per tutti.

In questa tua nuova fatica, sento echi della grammatica narrativa ucronica, o se vogliamo fare gli accademici della Storia Controfattuale. Per dirla in parole semplici, immaginare ipotesi alternative alla storia canonica. Se la tua storia è un What If, per dirla all’americana, darà vita a un universo alternativo? Avremo la linea temprale Paperoni-Celoni, diversa da quella classica, come in Star Trek?

Hai ragione a definirla un what if, ed è così che l’ho intesa quando è subentrato “l’affare lenticchie”. La storia di Scarpa resta intonsa, poiché questo non si tratta di sequel né ha mai voluto esserlo. Quel finale andava benissimo così com’era. In ogni caso, non vedo necessità di un universo parallelo, perché malgrado Paperone guadagni in sostanza un suo nuovo “primo dollaro” su cui ricostruisce la sua fortuna, alla fine rientra in possesso – come succedeva nella storia di Scarpa – della sua fortuna “originale”, quindi anche della sua vera Numero Uno. Ciò che mi premeva dire, nei margini di una scrittura che ha dei paletti come quella del fumetto disneyano, è che nella vita si può (e probabilmente si deve) “morire” e “rinascere” più volte.

Prima di Zio Paperone il 2022 è stato occupato da Totò, o almeno questo è quel che si coglieva dalla tua presenza social. Hai realizzato quella che per molti è l’opera a fumetti definitiva su Totò. Perché ti sei dedicato con tanto amore e tanta passione a questo personaggio? Ci trovi qualcosa di tuo?

In realtà, ci ho lavorato in contemporanea perché le due consegne si sono praticamente sovrapposte, quindi è stato tutto davvero faticosissimo, anche a causa di grossi problemi familiari a cui dovevo dedicarmi. In totale, si parla di quasi 300 pagine scritte e disegnate, un centinaio delle quali anche dipinte. Un periodo molto intenso, fisicamente e mentalmente, durato quasi un anno, in cui praticamente lavoravo da quando mi svegliavo a quando andavo a dormire.

Riguardo a Totò, essere riuscito a pubblicarlo è qualcosa che mi rende davvero orgoglioso, perché è un personale omaggio e ringraziamento alla persona che più mi ha fatto ridere nella vita. E ci tenevo molto a… sdebitarmi. Quindi sì, ci ho lavorato davvero con molto amore e con tutta la passione che avevo. Ritrovare un soggetto autentico e inedito degli anni ‘40 è stato emozionante, perché mi è sembrato davvero di girare un film insieme a Totò. E sono molto felice di essere riuscito a trasmettere ai lettori queste emozioni. Ora sto lavorando sulla seconda parte – anzi, sul secondo tempo – e, malgrado mi servirebbe una vacanza di sei mesi, cercherò di finirlo per quest’anno. Ma, tanto per cambiare, non è l’unica cosa a cui sto lavorando; infatti, devo anche finire una storia di Dylan Dog a cui tengo parecchio.


Non sei nuovo a esperienze di sceneggiatura. Partendo da Nemrod (Star Comics), passando per la miniserie San Michele (Star Comics), e arrivando a queste ultime produzioni. Come ti ritieni? Uno sceneggiatore che ha la fortuna di saper anche disegnare, o un disegnatore che è voluto diventare autonomo e ha imparato a sceneggiare?

Beh, parlando di soggetti e sceneggiature dimentichi Dylan Dog, per cui ho scritto tre storie lunghe (una, come dicevo, la sto ancora disegnando) e una breve per il Color Fest, più un’altra storia breve per Lucifera, disegnata da Alex Horley. Più tutte quelle per gli SmartComiX. Più romanzi e racconti. Per rispondere alla tua domanda, mi ritengo semplicemente un narratore. Il disegno è una forma di narrazione tanto quanto la scrittura. Quando avevo sei anni, non mi ponevo proprio il problema: scrivevo e disegnavo i miei piccoli fumetti e tanto mi bastava. Raccontavo una storia e non c’era frammentazione o classificazioni. Poi, la vita mi ha portato a impegnarmi molto nel disegno, che richiede una formazione lunghissima, ma non ho mai smesso di scrivere, anche da carbonaro. Per me è naturale quanto disegnare, non è stata un’acquisizione successiva. Quindi, anche a 51 anni, continuo a non pormi il problema.

Uno degli avvenimenti più dirompenti del 2022 nel mondo del fumetto e dell’illustrazione professionale è l’ingresso in scena delle IA autoapprendenti che disegnano e realizzano immagini dietro indicazioni del committente. Cosa ne pensi?

Parliamo di etica e diritti, cosa sacrosanta, ma dovremmo parlare anche di cultura, di senso dell’arte e quindi dell’uomo. Dietro lo studio dell’intelligenza artificiale ci sono aziende miliardarie che se ne fregano altamente di cosa sia l’arte e se ci sarà un futuro per essa nelle prossime generazioni: probabilmente si augurano di no, perché la gente che pensa è sempre meno influenzabile di chi si fa imporre i gusti degli altri. Il loro obiettivo imprenditoriale è, molto prosaicamente, fare più soldi possibile, il prima possibile, mentre noi ci indigniamo o ci lisciamo le penne. Io posso capire quando un non addetto ai lavori, che non distingue Pollock da Chagall (nel caso li conosca) non si scandalizza davanti a queste cose, pensando ingenuamente che l’AI sia un semplice strumento in più a favore dell’artista. il problema è quando leggo lo stesso da chi l’arte la fa, o dovrebbe farla e non comprende la buca che ci stiamo scavando. Si manca totalmente il focus sul problema, che finisce annebbiato nel voler mostrare sé stessi migliori o più bravi. È lo stesso meccanismo mentale che ci frega sui social, in fondo, e che i CEO di queste aziende hanno imparato molto bene. SI commette l’errore di credere questo tipo di AI uno strumento, usato dall’uomo. È esattamente il contrario: è l’AI che usa noi e che da noi impara. Quindi, siamo di fronte a qualcosa che non si era mai visto prima: qualcosa che umana non è e che “crea” – diciamo così – al posto nostro, illudendoci e ingannandoci, nell’interesse esclusivo di altri umani. E intanto, apprende. Uno specchietto per le allodole perfetto, gestito da furboni senza scrupoli. Qualcuno fa insensati paragoni con l’avvento della fotografia, o di Photoshop, della pittura digitale etc, dimostrando di essere parecchio confuso. A differenza dell’AI “artistica”, quelli sono veri strumenti. Se io do un pennello in mano a qualcuno che non sa disegnare, che sia intinto nella china, nella tempera o nell’olio, farà una porcheria. Se gli do una penna digitale e un computer, succederà lo stesso, perché non è il programma che disegna per te, ma tu che dipingi con le tue competenze su uno strumento diverso, pennellata dopo pennellata, dubbi dopo dubbi, su un supporto – carta o schermo che sia – che senza il tuo talento, le conoscenze artistiche, le tue nozioni di pittura, di anatomia, di prospettiva, di gusto e via dicendo, non potrebbe fare nulla. Non esiste il pulsante “crea illustrazione”, eppure sono ancora in molti a crederlo. Idem per una macchina fotografica. Io te la posso mettere in mano, tutti abbiamo un telefono con cui fare foto identiche al tramonto, ma questo non ci rende fotografi, come il tenere in mano un pennello non ci rende pittori. Anche con la più costosa reflex del mondo, se non si è Sebastiao Salgado, se non si è veri fotografi, difficilmente si otterrà qualcosa che abbia a che fare con l’arte. Ma il discorso è: non c’è niente di male a non essere artisti, basta non credere di esserlo quando non lo si è. E vale per qualsiasi altra cosa, per qualsiasi altra competenza o talento. Quando fai arte, è la tua vita che metti su carta o su schermo, o in musica, o in un romanzo, le tue esperienze personali, irripetibili, unite alle tue competenze tecnico/artistiche. All’AI, invece, non serve l’intervento umano diretto, lo ruba soltanto dai database che contengono vere opere di esseri umani. Le stesse due stupide righe di prompt: “Drago che lancia fiammata e brucia le terga a Gennaro”), da cui il programma costruisce l’intera immagine in pochi secondi, le potrebbe scrivere chiunque. C’è chi si autodefinisce “artista del prompt”: sarebbe molto divertente, se non fosse tragico. Scrivere righe di prompt più o meno dettagliate non rende artisti, autori o co-creatori di alcunché, anche se per molti è bello pensarlo. Tra l’altro, presto l’AI si scriverà anche i prompt da sola, ovviamente. Potrebbe già farlo, e se per adesso non lo fa è solo per farci usare il giochino, facendoci credere di essere noi a “fare arte”. Ma illudersi che l’AI non potrebbe mettere insieme due righe da prima elementare, quando già può scrivere romanzi, beh… trovo quasi commovente l’ingenuità di chi pensa di essere l’artefice di ciò che realizza una macchina in totale autonomia. Si badi bene, autonomia dall’umano che sta scrivendo le due righe, non autonomia artistica, perché la macchina va semplicemente a rubare e a rimontare opere altrui, tra l’altro senz’alcun permesso legale, nelle miniere infinite di Google che noi stessi abbiamo nutrito per anni. È l’opera di un parassita cibernetico. Anche pensare che il “furto d’opera” sia la stessa cosa che fanno gli artisti veri è una baggianata: l’ispirazione dall’altrui opera è sempre esistita, ma è sempre stata filtrata dalla sensibilità del singolo artista, che poi ripropone la sua personale visione, alta o mediocre che sia, con il suo bagaglio artistico. Torniamo a bomba: quell’ispirazione la può filtrare e disegnare/dipingere (o scrivere) solo chi ha proprie capacità tecniche, il suo substrato unico, umano, artistico ed emozionale.

Quindi, “artista del prompt” lo posso accettare solo nel caso che per “prompt” si intenda un sinonimo di “pene”. Altrimenti, un qualsiasi committente diventerebbe autore o co-autore dell’opera. Alle fiere, noi firmeremmo le commission insieme a chi ci ha chiesto un disegnino e ci ha spiegato come lo voleva realizzato. E sotto la Cappella Sistina ci sarebbe scritto: “Autore: Papa Giulio II e Papa Clemente VII, con l’aiuto di Michelangelo Buonarroti”.

Il vostro contributo all’opera, cari artisti del prompt, è semplicemente ZERO.

Ma è solo il risultato di un’epoca in cui tutti credono di poter fare qualunque cosa, in fretta, e che le competenze non servano più. Che mio cugino, con 30 euro, lo faccia meglio. Di più, che le competenze vere siano un inutile orpello, e chi le ha sia un “vanitoso”, un boomer o un retrogrado che ruba spazio agli altri. Ci sarebbe anche da fare un discorso sulla “comprensione del bello”, ovvero che molti non distinguano una ciofeca da un capolavoro, o manchino completamente di gusto, o ancora che vogliano semplicemente sfruttare un lavoro ottenuto quasi gratis (giusto il prezzo dell’abbonamento mensile al programma) invece che pagare un illustratore vero, senza notarne le differenze. Tra l’altro, al momento il livello artistico delle AI è dozzinale, riciclato e abusato, già vecchio sul nascere. Brutto, semplicemente. È sempre tutto inerente alla cultura, in questo caso dell’immagine. Ma la varietà di approcci all’AI è molto vasta e sarebbe sbagliato far di tutta l’erba un fascio. C’è chi la usa come “creatrice di bozze” e poi ci rimette mano così pesantemente da far quasi sparire l’opera della macchina, ma sono pochi. C’è chi la usa per sperimentare, per trovare idee. E c’è chi, aggiungendo due luci con Photoshop a un’immagine generata dall’AI, dice di esserne coautore, come se mettendo una nuvola in più nel “campo di grano con volo di corvi” di Van Gogh io potessi diventarlo. Altri usano i loro stessi lavori e li fanno rielaborare dall’AI, oppure utilizzano le immagini generate come tracce di storyboard o suggerimenti, in questo caso non rubano il lavoro altrui e la cosa è già diversa, ma personalmente vedo un grosso problema nel ricalcare sé stessi, si perde un momento fondamentale della creazione, quello dell’idea originale. E proseguendo così, vedo il rischio di smarrire sempre più l’abitudine a usare l’immaginazione, che è da allenare costantemente. Quindi, mi domando: dov’è il senso? Da bambini non abbiamo iniziato a disegnare perché ci piaceva disegnare? Perché ci meravigliava creare nuovi mondi? Fare immaginare qualcuno al posto nostro la trovo la peggiore delle sconfitte. È alzare bandiera bianca. Se si intende l’arte esclusivamente come mercato del pesce, tutto è ammissibile. Ma altrimenti, perché fare arte?


Alla fine del 2022 in rete è rimbalzato una dichiarazione del maestro Miyazaki per cui le IA sono “un disgusto per la vita stessa”, e ha assicurato i suoi fan che lui e lo studio Ghibli non faranno mai uso delle IA nel processo creativo. Condividi questa posizione estrema o il futuro è qui e non possiamo opporci?

Beh, se il mio futuro va verso un burrone, mi oppongo eccome. Uso i freni o il volante e cerco di cambiare direzione, è il senso dell’avere un cervello. Detto ciò, stiamo vedendo solo l’inizio di qualcosa che probabilmente avrà grandi conseguenze sulla società, sta a noi decidere se usare queste tecnologie nel bene o nel male, finché siamo in tempo. Il problema, ancora, è culturale. Condivido totalmente il pensiero di Miyazaki. Oltre a tutti i discorsi legali sull’utilizzo di copyright altrui, al momento totalmente sregolato e vergognoso, trovo sia perfino peggiore un altro concetto. L’arte è davvero il distillato della nostra vita, di ciò che vediamo, apprendiamo, sperimentiamo, osiamo e amiamo. Dei nostri dubbi. Della nostra gioia, della nostra fatica e soprattutto del nostro dolore. Insomma, è la sublimazione del nostro essere umani. L’arte, qualsiasi arte, è davvero quanto di più umano ci possa essere, la sua parte più nobile. Il talento è posteriore allo spirito che lo muove. Di conseguenza, delegare a una macchina una creazione artistica (fasulla, peraltro) è quanto di più miserabile e triste possa esserci. Più che immorale, è stupido. L’AI non ha dubbi, non ha dolori. Ma rischia di tagliare le gambe e la fantasia alle nuove generazioni. Io non temo di perdere il lavoro, tutt’altro: io voglio essere surclassato, meravigliato dai nuovi artisti, dalle loro nuove visioni. Voglio imparare da loro. Questa miseria invece è davvero vendere l’anima e lasciare macerie dietro di sé. E lo dico da amante della tecnologia. Ma qui mi ricollego a Miyazaki: bypassando lo spirito dell’uomo, l’AI diventa un insulto alla vita. Alla sua meravigliosa imperfezione, alla sua varietà, all’imparare ad esplorarla, all’interrogarsi e soprattutto a sbagliare, all’accendere fuochi quando tutto intorno è un deserto ghiacciato. Se non lasciamo qualche fiore nuovo nel giardino, siamo solo dei predoni. Il senso dell’arte è condividere con altri la propria visione del mondo, il proprio fiore, bello o brutto che sia, non quello di piantare fiori secchi e identici, rubati al supermercato.


Qual è il processo creativo dentro la mente di Fabio Celoni? Da cosa trai ispirazione per ideare una storia? E da dove trai spunto per le inquadrature delle tue tavole?

Non ho una regola. Ma di certo non aspetto l’ispirazione con le mani in mano, guardando l’orizzonte alla finestra in attesa di un miracolo, vado a inseguirla con il lazo. Pensando, ripensando, scartando, riformulando, finché da tutto quello sfregamento cerebrale nasce una scintilla, come al campeggio con la pietra focaia. Da lì, si parte e si lavora per coltivare quella scintilla e farla ardere, e qui serve tanto lavoro, impegno e mestiere. L’ispirazione ha le sue basi nel vissuto: se non vedi, non puoi elaborare né immaginare altro. E il vissuto è tutto ciò che ci circonda, non solo l’osservazione dell’arte altrui ma di ogni cosa che ci succede nella vita.

Riguardo le inquadrature: ho appena visto il bellissimo “The Fabelmans”, di Spielberg. Nella scena finale, Steven-ragazzo incontra il mitico John Ford, che gli mostra dei dipinti e gli chiede dove si trovi la linea dell’orizzonte. È una grande lezione di cinema (che si può usare anche nel fumetto) perché gli sta insegnando che non è tanto ciò che inquadri, ma come lo inquadri, che cambia tutto. Il tipo di narrazione. La stessa scena puoi rappresentarla da cento punti di vista differenti, e ognuno di loro ti comunicherà qualcosa di diverso. Va da sé che la scelta non dev’essere casuale, i virtuosismi fini a sé stessi sono inutili, le inquadrature e la composizione dell’immagine servono solo a raccontare. Quindi la regia, nel cinema come nel fumetto, è ciò che c’è di più importante. John Ford sta dicendo al giovane Spielberg di non accontentarsi, di non essere banale o mediocre nella sua messa in scena, ma di mettere emozione e inventiva in ciò che racconta. E conclude: “La linea dell’orizzonte in basso è interessante. La linea d’orizzonte in alto è interessante. La linea d’orizzonte mediana, è una vera merda”.


Come vedi il futuro del mercato a fumetti in Italia? Roseo e coccoloso, o verranno tempi di “tragenda e disperazione tra le genti”?

La narrazione per immagini è antica come l’uomo e non si estinguerà mai, bisogna solo vedere quali saranno i prossimi bivi. I fumetti, se da un lato vendono sempre di meno, così come i libri, dall’altro rivelano un notevole incremento di proposte diverse. Questo può essere sia un bene che un male, perché se da un lato la varietà di proposte è cosa salutare, dall’altro l’eccessiva proposta porta all’invisibilità delle singole opere, affogate tra mille. Anche i librai dovrebbero osare di più nell’esposizione dei libri, senza rincorrere sempre e soltanto la moda. Ovviamente, il fumetto (così come il cinema) deve fare i conti con concorrenti che solo pochi anni fa non esistevano, in primis il tempo passato da tutti noi su internet. Ma i ragazzi vogliono ancora sognare, la cosiddetta invasione dei manga lo rivela. Cercano storie molto diverse tra loro, piene di immaginazione, visioni diverse, stimoli, magia. Credo che noi abbiamo il dovere morale di non uccidere il loro spirito. Quello che immagino è che si formeranno sempre più sacche di lettori diverse, da una parte i tradizionalisti e gli appassionati-collezionisti, dall’altra le nuove generazioni di lettori, con visioni e bisogni diversi, sempre in progressione. Stare al passo con i tempi è fondamentale. Anzi, editori e narratori dovrebbe precorrerli, aprire strade nuove, osare. E vedere nell’immaginazione la pozione magica che può curarci tutti, grandi e piccoli, prima che la mancanza di fantasia e coraggio di chi vuole normalizzare il mondo a sua immagine e somiglianza ci condanni tutti a una pallosissima e sterile inquadratura centrale.


Progetti Celoneschi che ci aspettano nel 2023?

Uhm… se ve lo dico, dove starebbe la sorpresa?

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