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Roberto Iacopini

Il Cattivo Poeta, l’esordio di Gianluca Jodice alla regia è più che convincente

Aggiornamento: 7 gen 2022

Un D’Annunzio crepuscolare. Esacerbato nel suo splendido isolamento. Monumento di sé stesso. Autorecluso nella sua magione immaginifica. Alle prese con un Mussolini e un partito fascista che lo controllano perché ancora lo temono.

Il cattivo poeta è un film revisionista perché teso a restituire spessore umano quello che per troppi e troppo tempo è stato considerato alla stregua di un “cattivo maestro”, uno dei maggiori precursori del fascismo inteso come élan vital.

Nel sontuoso scenario del Vittoriale, il Federale di Brescia, Giovanni Comino, viene inviato a controllare da vicino il poeta, divenendo testimone basito dell’intemperanze sessuali del Vate e di quelle verbali nei confronti di Mussolini.

Al centro dei suoi strali, puntualmente riferiti a Roma c’è soprattutto il Fuhrer, al quale Mussolini appare subordinarsi. Così che Gabriele D’Annunzio possa descriversi come solitario veggente inascoltato degli sfracelli che da quella alleanza sarebbero scaturiti.

D’Annunzio viene descritto come l’interprete di un sentimento irrisolto della nazione. Un uomo carismatico, ma impolitico. Assolutamente poco cinico e spregiudicato per candidarsi alla guida di una nazione, perché umano, troppo umano.

Colui che a Fiume si fece duce prima del Duce, promulgò una costituzione, la Carta del Carnaro, che conferiva agli artisti uno status mai pensato prima. Il poeta che portò l’immaginazione al potere e concesse il voto alle donne nei suoi ultimi anni di vita.

Curvo e claudicante, ma non “ingobbito come il Recanatese”, è ancora capace di arringare i suoi legionari, ma li paragona ad un manipolo di “fantasmi” ormai espulsi dalla storia e forse fatalmente avviati ad essere considerati reprobi come lui.

Il cuore del film sta nella certezza dell’impossibilità di poter vedere realizzato un’ideale più grande di quello che si va incarnando nel “fascismo regime” e in un partito affidato al sospettoso Achille Starace.

Il film è un’opera prima di grande spessore, scritta e diretta da Gianluca Jodice alla quale dà lustro un grande e trasfigurato Sergio Castellitto nei panni di un Gabriele D’Annunzio psicologicamente contrastato e fisicamente prostrato.

Sorprende positivamente anche il giovane Francesco Patanè che dà corpo e consistenza psicologica al più giovane federale d’Italia, un idealista destinato a rivedere molte delle sue convinzioni originarie alla luce del suo rapporto con il Vate.

Il film è assolutamente credibile anche quando mostra D’Annunzio rivolgersi ai legionari nella sua divisa di comandante indossata sopra i pantaloni del pigiama, ma lo è molto meno quando mette in scena Mussolini con pose da macchietta.

Come ebbe ad affermare Lenin: «In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D’Annunzio e Marinetti». E il fatto che solo il più politico dei tre ci sia riuscito, dovrebbe pur indurre ad una qualche riflessione.



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