Un panorama autunnale dall’alto. Il giallo brunito delle foglie sugli alberi. Un pickup che marcia lungo un sentiero. Una mano anziana sul pomello del cambio. Riflesso nello specchietto retrovisore le falde di un cappello da cowboy. Basta la sequenza iniziale a fare di Cry Macho un film da vedere, non fosse altro perché l’uomo alla guida del pickup è Clint Eastwood, che ne è anche il regista.
Un cowboy vedovo, ex stella del rodeo, fermato da un incidente in sella e uno nella vita, ha perso il lavoro, ma ha ricevuto un incarico: riportare a casa il figlio tredicenne nato da una avventura sentimentale avvenuta in Messico. L’uomo ha saputo che il ragazzo è vittima di abusi a casa della madre, divenuta un’alcolizzata. Il cowboy tentenna, poi accetta per un debito morale da saldare.
Sembra una missione facile da compiere, ma appena oltrepassata la frontiera la faccenda si complica. Il ragazzo è un ribelle che si accompagna a un gallo da combattimento di nome Macho, ma lungo il viaggio on the road i due imparano a conoscersi, condividendo diverse peripezie che esaltano la dinamica vecchio/giovane, mentore/allievo, di tanta cinematografia di Eastwood.
Ancora una volta Clint Eastwood dà vita ad un personaggio chiamato a riparare i torti e a difendere i più deboli da bulli e delinquenti arroganti, pur consapevole dei limiti dell’età. Rispondendo al ragazzo che è intriso di un ideale di virilità molto messicano, afferma che “questa cosa del macho è sopravalutata”, pronunciando una battuta decisamente autoironica.
Nel polveroso e sonnolento Messico, il gringo si apre per abbracciare una cultura diversa, ponendosi al servizio di una comunità che si rivela assai simile a quelle del far west. Il paesino di confine è il luogo adatto dove curare le ferite del passato, ritrovare sé stessi e ricominciare una vita assai simile quella della frontiera americana, ma ad una diversa latitudine.
Il film presenta alcune sequenze che paiono stridere con l’età del protagonista, come quando doma un mustang o quando diventa l’obiettivo sentimentale di una vedova ben più giovane di lui. Ma a Clint Eastwood si possono perdonare le scivolate di sceneggiatura, nella quale trapela la nostalgia per la vita senza fronzoli della frontiera e i buoni sentimenti dei suoi abitanti.
Lo sceneggiatore è ancora una volta il fedele Nick Shenk (Gran Torino e The Mule) che ha recuperato un vecchio copione di Richard Nash che era stato già stato offerto a Eastwood nel 1988 il quale lo rifiutò per suggerire Robert Mitchum al suo posto. Il progetto è rimasto a prendere polvere per vent’anni, fino a quando Shenk su mandato di Eastwood non vi ha rimesso mano.
In un film mesto e crepuscolare, che per certi versi richiama alla mente anche I ponti di Madison County, Clint sembra parlare di sé stesso e dei suoi personaggi cinematografici: “Un tempo ero un sacco di cose, ma ora non più. Pensi di avere tutte le risposte, ma poi invecchi e ti rendi conto che non ne hai. E quando lo capisci è troppo tardi”.
Infine, un antefatto. Nel novembre del 2018, la California era funestata dagli incendi che minacciavano anche i sobborghi di Los Angeles. Uno, particolarmente vasto e fuori controllo, stava risalendo le colline dietro gli stabilimenti cinematografici della Warner Bros, dove Clint Eastwood stava ultimando il montaggio del film Richard Jewel, il suo penultimo film da regista.
Eastwood venne raggiunto dagli uomini della sicurezza che lo invitano ad uscire poiché la situazione è pericolosa e tutti gli studios sono stati evacuati. “Grazie, ma sto bene e non me ne vado. Ho ancora un lavoro da finire”. Sembrano le parole di una sceneggiatura, mentre sono quelle di un uomo che ha smesso di invecchiare per diventare eterno. Come i suoi personaggi.
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