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Pier Luigi Manieri

Spenser e il peggio del cinema iconico

Aggiornamento: 7 gen 2022

Perlustrando il catalogo Netflix è possibile incappare in Spenser confidencial


Spenser è un ex poliziotto che è stato incastrato. Dopo aver scontato la condanna, esce dal carcere dov'era finito per aver scoperto le ramificazioni di un cartello della droga. Riaccolto in casa sua dal suo ex istruttore di boxe, l’anziano Henry, Spenser deve suo malgrado dividere la stanza con Hawk, anche lui uscito di prigione. Forzatamente insieme faranno luce sul narcotraffico cittadino e le sue implicazioni all'interno dello stesso corpo di polizia.

Il film, diretto da Peter Berg, al suo quinto titolo con Mark Wahlberg nel ruolo del protagonista, è ispirato ai romanzi del personaggio creato da Robert P. Parker, e già trasposto nella serie tv omonima interpretata dall’icona televisiva Robert Urich (SWAT, Vega$, Love Boat the next wave), ma prende drammaturgicamente le distanze tanto dai romanzi che dallo stesso telefilm. Diciamolo senza girarci intorno, il film è pessimo. Trama inconsistente. I “colpi di scena” sono talmente elementari dal non poter essere neppure definiti come prevedibili, i personaggi, talmente brutti dall’essere indifendibili. Un autentico record di spazzatura filmica, con l’aggravante della base di partenza. Difficile se non impossibile sbagliare un’opera che poggia su precedenti robusti come appunto la serie di romanzi e quella televisiva.

Tralasciando le opere letterarie, è il confronto con il precedente visivo a segare in due qualsiasi velleità di riscatto dialettico tanto era poetico e insieme realisticamente duro il primo, tanto è banalmente sciatto, volgare, dozzinale, il secondo. Spudoratamente infarcito dell’ormai immancabile campionario di bestialità, comprese le solite faccine da avanspettacolo a sottolineare dialoghi fiaccamente no sense, non si fa mancare proprio nulla, i dialoghi con la ex moglie immalinconiscono per quanto sono demenziali, lei poi dà il “meglio” di sé quando nel tentativo di liberare Travis (ma perché un attore dalla carriera gloriosa come Alan Arkin presta la sua storia e statura a certi orrori?) si lancia in un monologo infarcito delle immancabili allusioni a terrificanti torture compreso il violare flaccidi culi di attempatissimi boxer. In questa galleria di personaggi detestabili senza attenuanti, quello che rimane davvero indigesto è la ex moglie. Come un uomo possa provare una qualche forma d’attrazione e di sentimento per un personaggio simile è forse, involontariamente l’elemento più interessante del film. Quanto a Wahlberg, si aggira per il film con un’arietta stralunata e vagamente idiota, inaccettabile per un personaggio non più giovanissimo e navigato come dovrebbe essere il suo. Non c’è alcuna traccia dello Spenser televisivo: ex pugile, ora investigatore privato che si sottrae alla tenebra del sotto bosco in cui gravita leggendo Dylan Thomas così come è impossibile riconoscere nell’ imbolsito, dozzinale e inespressivo Winston Duke il suo nemico-alleato, il raffinatissimo Hawk, nel serial un carismatico Avery Brooks. Se non sorprende l’adesione di Mark Wahlberg che con titoli come Ted, ha ormai abituato lo spettatore al trash mascherato da politicamente scorretto, lascia sgomenti la direzione di un regista ben strutturato come Peter Berg, messosi in luce con la black comedy, Cose molto cattive e di cui si apprezzano pellicole solide e mature come Lone survivor e Red Zone - 22 miglia di fuoco (entrambi con Wahlberg) ma capace di opere vistosamente action come Battleship, Hancock e il Tesoro dell’Amazonia. Se a Berg aggiungiamo che Spenser è stato scritto da Brian Helgeland (L.A. Confidencial, Mistyc River, The Loosers), è lecito domandarsi quanto sforzo abbiano profuso per tirarci fuori qualcosa di così inguardabile. O forse, hanno ragione loro, il film è diventato il terzo più visto di sempre su Netflix, con 85 milioni di visualizzazioni. Fatto sta che Spenser confidencial è solo l’ultimo di una lista di adattamenti che maltrattano quasi sadicamente, gli originali. C’è evidentemente un gusto iconoclasta nel prendere il prototipo e calpestarlo. Ridurlo in macchietta. Passarci sopra col caterpillar affinché della matrice non rimanga proprio nulla. La storia del cinema è costellata da tradimenti più o meno

macroscopici e il film iconico non fa eccezione ma vi sono differenti gradi di adulterio. Del 96 è l’iconico d’autore Mission: impossible. La storia su come si buttano nello scarico trenta anni di antologia della televisione è grossomodo questa, Tom Cruise si accaparra il marchio e lo riavvia. Ma per farlo deve togliersi di torno l’ingombrante sagoma di Jim Phelps, il protagonista tanto della serie originale quanto del suo seguito dell’85. Pensa bene di farne un traditore. Non originalissimo ma sempre di moda. Ha poi la sfrontatezza di proporre il ruolo proprio a Peter Graves che decorosamente declina. Sarebbe come dire che Starsky e Hutch prendevano mazzette. Che Napoleon Solo o Kelly Robinson vendevano piani ai nemici. Ma tant’è. Cruise è comunque riuscito a mettere in piedi un progetto di successo. Anche credibile, finché non ha coinvolto J.J. Abrams che lo ha progressivamente portato verso le sitcom. Nel 2002 è la volta di SWAT (povero Urich, ci va di mezzo sempre qualche sua serie), Il tenente Dan 'Hondo' Harrelson, interpretato da Steve Forrest, cambia colore della pelle per far posto all’onnipresente Samuel L. Jackson che nel subentro non solo nulla aggiunge ma appesantisce. Se a questo sommiamo la solita, trita, tematica del passato personale che pesa come un macigno, la teoria di frasi fatte e dialoghi pregni di sentimentalismo, nonché l’immancabile amico traditore (e ritorniamo al M:I di Cruise), è un film che della serie avvincente e adrenalinica (e molto contestata da certo perbenismo progressista) non mantiene nulla. Ma si accennava ai diversi gradi. Spingendosi oltre c’è un’intera enciclopedia del misfatto. Tra riscritture, cambi di registro, tradimenti assortiti, ne escono fuori film definibili unicamente come atroci. Titoli in un certo senso immorali perché giocano e sbeffeggiano l’affetto del fan verso certe pietre miliari.

Si va a vederli perché come fai a negarti chessò, The Man from UNCLE o Starsky & Hutch specie se il cast è cool come non mai? Ma fin dalle prime battute ti accorgi che di quegli eroi sono rimasti solo i nomi. Guy Ritchie non riesce a bissare il colpaccio messo a segno con la revisione di Sherlock Holmes. Indugia eccessivamente sul tono farsesco e sfumature grottesche, quanto agli Stiller e Owen (il finto biondo è coprotagonista anche del terribile I Spy, perseverare è diabolico), in luogo di Paul Michael Glaser e David Soul, ti auguri ben presto che qualche cattivo da

operetta li faccia fuori. Sulla medesima lunghezza d’onda si colloca Avengers, film la cui bidimensionalità è un unicum. Il che è a suo modo sbalorditivo perché anche in questo caso sbagliare con cotanto materiale è più difficile che facile eppure ce l’hanno fatta. Di certo, quanto a film iconici che hanno brutalizzato gli originali, Avengers è in buona (pessima compagnia): Charlie’s Angeles; Wild Wild West e Lone Ranger vengono solo dopo Green Hornet. E per decoro non commentiamo 21 Jump street e Baywatch. A questo livello siamo all’insulto. Sceneggiatori e registi giocano coi personaggi come fossero i loro. Ma inspiegabilmente virano costantemente verso il becero. Il triviale. Il demenziale. Così come si fatica a comprendere perché Jim West diventi nero. E non

perché non ci siano stati pistoleri di colore (si veda il telefilm The Outcasts/Sui sentieri del West )ma per il fatto che non ha nulla a che fare col personaggio. Tanto sarebbe valso crearne uno ex novo. Ma invece no. Inutile dire che il film è naufragato miseramente. Come lo è anche il già citato I Spy, in cui si invertono i ruoli: il nero Alexander Scott, che nel telefilm è un grandioso Bill Cosby ha la faccia di Owen Wilson (!?), mentre Kelly Robinson passa dal mitico Robert Culp (Reporter alla ribalta, Ralph supermaxieroe) a… Eddie Murphy (!?). Ma si può fare di peggio… basti pensare al faccione di Seth Rogen nei panni del giustiziere verde. Cosa ha a che fare con Green Hornet un comico neppure particolarmente divertente? Nulla. Ma per assecondarne la vena o forse per ottenerne l’effetto, il film diventa una parodia del personaggio. Con buona pace per decenni di programmi radiofonici e di Bruce Lee.

Più senso ha almeno sulla carta la coppia composta da Armie Hammer e Johnny Depp, che del 21 Jump street televisivo era il protagonista. Ma anche questa versione cinematografica del cavaliere solitario lascia il tempo che trova.

Gore Verbinski va fuori tema. Insegue senza troppa convinzione la sua Maledizione ma non trova neppure Rango. Meno spregevole è il lascito di A-Team. Il cast è meno insensato di altri e il film, al netto di certe smargiassate come il carro armato in caduta libera e le bistecche all'anticongelante, dell’ennesima cospirazione governativa (si vedano in serie quelle di Mission: Impossible), funziona.

A questo catastrofico elenco di calamità in celluloide e digitale, si sottrae Miami Vice. Nonostante Farrell abbia due sole espressioni, accigliato e non (mentre Foxx è in parte), il film restituisce, esclusa, ahimè la patina glam anni ottanta, tutta l’essenza della serie: ampie panoramiche, drammatici e realistici scontri a fuoco, il fascino da malinconici eroi da hardboiled dei due protagonisti, la Ferrari e il fuoribordo (più la scena della granata nel covo dei cattivi rubata a Il Ritorno dello Jedi). Ma è anche vero che ha un vantaggio non da poco: in regia c’è Michael Mann che è il papà della serie.


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