Diamanti di Ferzan Özpetek. Riflessioni su uno dei grandi successi di questa stagione del cinema italiano
- Pier Luigi Manieri
- 20 feb
- Tempo di lettura: 6 min

Diamanti: le donne del nostro cinema sono come i minerali più preziosi del mondo. Non potrebbe essere più vero, almeno per chi, come lo scrivente ha dedicato alle attrici, registe, sceneggiatrici, costumiste, montatrici, scenografe, un premio cinematografico e una rassegna culturale alle quali hanno preso parte tra le altre: Franca Valeri, Sandra Milo, Angela Finocchiaro, Piera degli Esposti, Cinzia Th Torrini, Roberta Torre, Cristiana Capotondi, Jasmine Trinca, Stefania Rocca, Laura Chiatti, Violante Placido, Loredana Cannata, Donatella Finocchiaro, Valeria Solarino, Alessia Barela, Elisabetta Rocchetti nonché alcune autentiche etoile della cultura italiana come Carla Fracci, Dacia Maraini, Susanna Tamaro. Se tanto ci dà tanto e uscendo dall’autoreferenzialità, non si può che concordare con Ferzan Özpetek, il regista che più di ogni altro ha avuto il merito di far uscire l’omosessualità da un anacronistico cono d’ombra per restituirla a una dimensione sociale riconosciuta.

E così, nel suo blockbuster che tiene alta la bandiera del made in Italy, per lo meno nel mercato domestico, ondeggiando tra cinema, meta-cinema, reality show, docufilm e inserti autobiografici, il cineasta italo-turco ci guida attraverso un gioco di specchi, entrando e uscendo dal film, in un altro tempo che è a conti fatti, una non-epoca.
Saltiamo a piè pari la trama ché è stranota e passiamo all’analisi, il film, e non è chiaro quanto volutamente, sembra procedere per anacronismi. La storia è ambientata agli inizi degli anni ‘70 ma le sue componenti, dai costumi alle acconciature fanno pensare a un periodo compreso tra la fine degli anni ‘50 e i primi sessanta, il che genera una asincrona tra ciò che corrisponde alla vista e ciò che viene raccontato. Se quella visiva è la distorsione più vistosa, non meno importante è quella lessicale; può venire utile pensare al rimando al’68 posto come qualcosa di precedente. Un rimando pedissequamente didascalico che trova forma nella fatidica frase “Abbiamo fatto il’68” che è qualcosa che si dice a distanza di decenni, non di una manciata di anni.

Sulla stessa lunghezza d’onda distonica si insinuano altre battute. A un certo punto la novella sartina per vocazione, metafora involontaria della società contemporanea in cui accade che sia più rilevante il voler essere del saper essere, esclama “No, assolutamente, no”. Alé, sfidiamo chiunque ad avere ricordo dell’uso di questa espressione prima di una ventina d’anni fa, certi che chiunque la ricordasse perderebbe per la semplice e definitiva ragione che non c’era. Non si usava, è entrata nel linguaggio corrente attraverso le serie tv statunitensi in cui si fa largo uso di “absolutely, not”. E siccome appare strano che un regista meticoloso come lui non si sia accorto di quanto strida, non rimane che leggerlo come qualcosa di voluto ma questo non lo rende meno tedioso. Non manca la perentorietà restituita da Vanessa Scalera: “No, però devi stare zitta.” A questo punto ci sarebbe stato bene anche “Ma anche sì; ma anche no”, “anche meno”, “tanta roba”. Come osserva acutamente la costumista, non si gira un documentario ma un film, questa verità sottende una emancipazione dal vincolo di verosimiglianza e noi non possiamo essere più d’accordo, un film non deve rincorrere una autenticità didascalica, non è necessariamente una fotografia ma parallelamente, trattandosi di un film in costume, non può nemmeno esimersi dal restituire lo spirito dell’epoca. E quello spirito, tra anacronismi in avanti e indietro, non arriva.
Non neghiamo una certa tendenza a spaccare il capello in quattro ma non di meno, da un film che è prevalentemente forma è lecito attendersi un’attenzione prossima all’ossessivo.

E arriviamo alle sigarette. Aspirate, trangugiate, violentate, accese con voracità compulsivamente famelica. L’intento è leggibile: il consumo come emblema d’emancipazione. E allora le donne, indugiando in una sfida a chi ne aspira di più, fanno fuori una tal quantità di sigarette che a un certo punto pare di assistere a uno spot mascherato a favore del loro consumo. Mancava solo il pacchetto aperto con tre dita per non nascondere il logo, come nei film di alcuni decenni fa.
Cosa c’è di altro che ancora non funziona? La laterale sensazione che Diamanti sia fuori tempo. Fosse uscito un paio di anni fa, avrebbe centrato in pieno il suo momento. Ma dopo Barbie e C’è ancora domani e soprattutto ora che la campagna maschiofobica sembra esaurirsi, appare come il giapponese sull’atollo.

Per carità, il film sta procedendo a gonfie vele e con pieno merito e di questo non possiamo che gioirne ma a bocce ferme, che società descrive? Da quali uomini è percorsa? Vediamoli: uno è violento. Un despota in canotta che gonfia la moglie un giorno sì e l’altro pure. Gli dà il volto Vinicio Marchioni che stabilmente inserito nel gotha del cinema italiano, s’incastona nel gioco di specchi con un ruolo che potrebbe essere il Doppio Malvagio del suo personaggio di C’è ancora domani.
Da un nome importante all’altro, ecco Stefano Accorsi: regista indeciso e insicuro che non coglie il messaggio né dell’abito, né dello strascico perché lui è stereotipato. Tradizionalista. Privo di coraggio e immaginazione. La sua prudenza ai limiti della noia ha un doppio contrario nell’appassionata quanto improvvisata sartina. Con la spensieratezza dei vent’anni si fa portatrice del messaggio di rottura, lei rifugiatasi nella casa di moda, nottetempo aggiunge agli abiti, motivi e decorazioni a casaccio, perché lei sente di farlo. E naturalmente tanta intraprendenza viene premiata. La costum-star ci vede delle vulve. E su questa teoria di gnocche concettuali, edifica un glorioso teorema “rivoluzionario”. In sostanza lo stesso approccio intellettuale per cui oggi una banana e un pezzo di nastro adesivo costano una follia. Tutto questo empatico furore contro il tradizionale, ha però un retrogusto: lascia serpeggiare il dubbio che le altre che si sono fatte l’Accademia di Costume e Moda e che sgobbano da anni aggrappate alle macchine da cucire siano delle fesse. Basta poco. Basta volerlo. Praticamente la nostra giovane è l’antesignana dei cantanti con l’auto tunes e delle performer da arte contemporanea che dopo mezzo secolo di “performance” non si è ancora capito che accidenti facciano.
Ma torniamo ai maschi. Ce ne sono due che ballano e cantano a comando. Il comando lo dà Geppy Cucciari, la quale poi li seduce con la sua avvenenza e indiscutibile charme. Davvero molto credibile nei panni della maliarda. Poi c’è il marito moscio. Lui non lavora, bada alle faccende di casa. È il papà debole di un ragazzo depresso.
Andando avanti in questa galleria di splendidi esemplari di uomini evirati, incompiuti, irrisolti, ignoranti e patriarcali, abbiamo l’investitore fedifrago, il padre padrone evocato dai racconti delle sorelle e il turco che abbandona mamma e figlioletto. Insomma, non se ne salva uno. il peggio del peggio, inutili nel migliore dei casi, uomini-mostro, nel peggiore, tant’è che anche un omicidio può starci bene. Intendiamoci, la legittima difesa è un diritto e un dovere verso sé stessi ma il fatto che nemmeno una, nella decina di donne provi il minimo disagio, fa riflettere sul messaggio di fondo.

L’unico personaggio di segno non completamente negativo è il marito di Jasmine Trinca, il criticatissimo Luca Barbarossa, quasi vezzosamente esibito (ma se la cava egregiamente), segnato dalla perdita quanto e più di lei.

A conti fatti anche il regista Accorsi, ancorché avviluppato nella spirale delle sue contorsioni esistenziali, è però più acuto della somma delle sarte, tant’è che è l’unico a sostenere che il vestito deve essere principesco perché il cinema è soprattutto immagine, stupore, bellezza e rappresentazione. Il “messaggio”, il “concetto”, sono già contenuti nel film.
E non un caso se l’opera esprime il suo meglio sul piano formale. Il film entra ed esce efficacemente da sé stesso in un intrigante effetto straniante. assistiamo al dispiegarsi della storia o a una rappresentazione della storia? La regia è virtuosa, con quei raffinati piani sequenza, rondò che volteggiano da un salone all’altro, che scivolano tra l’esercito di sarte, modiste, apprendiste che animano le stanze e i corridoi dell’atelier. Una eleganza garbata, mai fine a sé stessa che non stanca perché ben calibrata e coerente. Così come la fotografia incanta ma senza rubare la scena. Una cifra estetizzante che da sola colloca il film, a buon diritto, tra le opere più pregevoli di questa epoca. Da ultimo, non si può non lodare e l’inedito di Mina e insieme, l’omaggio alla stagione d’oro dell’alta sartoria romana e in particolare il pensiero vola alle Sorelle Fontana, evocate dalle protagoniste, le due sorelle Canova.
Ma appunto, se il cinema è estetica, suona in qualche modo beffardo il saluto finale a Mariangela Melato, Monica Vitti e Virna Lisi, se si pensa alla mezza interpretazione di Jasmine Trinca, convincente nelle movenze ma che non porta a casa nemmeno una battuta. Tra l’altro, quando dialoga con Luisa Ranieri, si coglie la differenza di inflessione, una romana e l’altra partenopea. Non si può soprassedere sull’ interpretazione incolore di Nicole Grimaudo, su una Carla Signoris che aggiunge l’ennesimo titolo alla galleria di ruoli da un registro solo, su Kasia Smutniak, senza infamia e senza lode, nel rappresentare "il nuovo che avanza" è impersonale e scolastica, nonché sulla sovraesposta, portatissima, Geppi Cucciari che può contare su un carnet di battute telefonate.
Menzione a parte merita Mara Venier, che a dispetto della lontananza dal set cinematografico se la cava egregiamente nel ruolo di cuoca, confidente e mamma di questo manipolo di donne lavoratrici, imprenditrici, mogli e sorelle (le polemiche sulla scollatura lasciano il tempo che trovano, chi la trova fuori luogo ha messo piede solo in cucine patinate alla Master Chef). Dulcis in fundo, Luisa Ranieri e Loredana Cannata si distinguono per distacco sulle altre. Come a dire che non conta quanto grande sia la parte, conta come la indossi. Come uno splendido abito d’alta sartoria.
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