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Europeo 2020: storia di campioni, vittorie, geopolitca e bandiere

Aggiornamento: 25 lug 2021


È un Europeo dalle molte bandiere, questo dilazionato di un anno. Quelle dei diversi Paesi ospitanti che se qualificati sono regolarmente presenti nelle rassegne sportive, in questa edizione hanno significati emblematicamente differenti, vessilli di un’inedita formula che nella sua ridistribuzione capillare riafferma l’idea di unità e d’identità europea in anticipo sui burocrati UE impegnati con le misure delle banane. Un’identità che pone in evidenza altrettante istanze e contraddizioni, in assoluto quella riguardante la Turchia che da sempre gioca su due tavoli. È nella benestante Europa quando in ballo ci sono i proventi, è la testa di ponte dell’Asia quando coltiva mire espansionistiche a sfondo islamico. Un’Europa, prima ancora culturale che non politica che non può prescindere dalla Gran Bretagna.

Micromondo che solo sei mesi fa abbandonava trattati e tecnicismi e ieri ha fatalmente ospitato l’Italia. Albione e latini, un rapporto dicotomico che affonda nei primordi della storia di entrambe le culture e che ai colori azzurri porta sportivamente abbastanza bene, come conferma la recente affermazione di Berrettini nel Queens, poi fermato in finale a Wimbledon da un marziano: l’eterno Djokovic (si rimanda all’approfondimento nella pagina del tennis.N.d.r.). L’Inghilterra che crolla puntualmente sul più bello è metaforicamente la gamba zoppa del disegno europeo. Così come la Turchia ne è il molare cariato. Entrambe ne sono per ragioni differenti un elemento quasi endemico, se i miti significano ancora qualcosa, il legame tra Roma e gli ottomani affonda in quello della Fondazione per poi proseguire in Costantinopoli. I successivi mille e quattrocento anni sono però di segno opposto, quando cioè ripercorrendo le tracce di Ismaele, Maometto profetizzò Allah.

Quanto agli inglesi, si sono considerati praticamente da sempre europei con riserva, tuttavia il doppio filo che lega Italia e Inghilterra non ha mai perso tensione. Da Shakespeare a Byron a Sting, passando per Mal e i divi del pallone. Gazza, Wilkins, Francis, Platt, Smalling e Beckham, il più divo di tutti. Insomma, Alfa e Omega di questa edizione, aperta con successo contro i turchi e conclusa in trionfo contro i britannici. Questa è un’Inghilterra velenosa che punge con Sterling e schianta con Kane. Bomber a carburazione lenta che è venuto fuori ala distanza. Insomma, le bandiere si sono via via ammainate, ha resistito quella posticcia del BLM, forzatamente agganciata alla manifestazione assieme all’arcobaleno modaiolo. Non è mancata la genuflessione collettiva. Ventidue giocatori che s’inginocchiano davanti al nulla ha qualcosa di metafisico (o da teatro dell’assurdo), specie se si pensa che quanto pretenziosamente sotteso fa a cazzotti con il peggio dell’antisportività. Fischiato l’inno italiano. Malmenati i tifosi all’uscita. In mezzo, gli inglesi disprezzano il secondo posto. Peggio per loro. A dispetto di quanto facciano con le squadre di club, i leoni (o micetti?) in Nazionale non ne indovinano una. Questo secondo posto vistosamente disprezzato resterà il massimo dei traguardi raggiungibili per gran parte di loro, ragazzini viziati e capricciosi dal primo all’ultimo. Compresi i quattro neri che una certa agiografica narrazione propone come fenomeni. Rashford ha riabilitato Zaza, Sancho e Saka, compongono una coppia di desaparecido da Chi l’ha visto? e Sterling dopo alcune fiammate e gol, è ripiombato in quell’anonimato che ha segnato la sua opaca stagione nel Manchester City. E così It’s coming home, diventa impietosamente It’s Coming Rome. Manca il “to”, con buona pace per i puristi.

E la partita? Quella dei vicecampioni è durata due minuti. Gol lampo di Shaw e italiani in bambola per quarantatre minuti. Mancini è furibondo, non riconosce la sua squadra, attende l’intervallo con l’augurio che gli inglesi continuino a sonnecchiare. Durante la pausa il ct deve aver toccato le corde giuste perché al rientro c’è solo l’Italia. Kane e Sterling sono sistematicamente disinnescati. Annichiliti. Bonucci e Chiellini, mastini inossidabili sono l’equivalente su gambe del Vallo di Adriano. Praticamente invalicabili. Chiesa continua il suo show solitario. Tra il primo e il secondo tempo è uno Speedy Gonzales inarrestabile. Un guastatore dalla tecnica sopraffina con un ghigno che lo rende meno innocente di suo padre, Enrico. Gli attaccanti italiani non mordono ma il resto della squadra, sì. Entrano bene Cristante e Florenzi, mentre Bernardeschi gira un po’ a vuoto ma lui serve soprattutto in veste di cecchino. E siamo ai rigori perché intanto Chiellini e Bonucci hanno assaltato la porta avversaria per fare ciò che gli viene naturale: asfaltare! Sradicano pali e avversari, questi due campioni con la faccia da Bravi manzoniani. Bonucci azzanna, palleggia raffinatamente e picchia con la medesima faccia. Se l’Italia è di nuovo sul tetto d’Europa molto lo deve all’ossessionato da trance agonistica che aveva il mental coach picchiatore. Jorginho è il bello dell’imperfezione, sbaglia il rigore che dovrebbe premiare e allora c’è spazio e gloria per il miglior giocatore dell’Europeo: Gigio Donnarumma, fuoriclasse pararigori che si prende a buon diritto la scena. Grazie a lui qualche psicanalista si arricchirà e alcune squadre dovranno ritornare sul mercato per sostituire giocatori emotivamente fragilini la cui freddezza è inversamente proporzionale alla narrazione che ne fa dei fenomeni. Troppo severi nei giudizi?

Probabilmente ma chissenefrega! Ci si attende dal soporifero governo italiano una vibrante protesta nei confronti delle forze dell’ordine inglesi che hanno assistito come spettatori apatici ai pestaggi subiti dai tifosi italiani. Mattarella si desti, convochi l’ambasciatore e tuoni dall’alto del Quirinale e chissà che non si smetta di rimpiangere Pertini. Registrato tutto ciò, restano le coppe, medaglie e bandiere. Anzi, la bandiera perché alla fine dei giochi ne rimane soltanto una ed è verde, bianca e rossa. Fratelli d’Italia…

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