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Musica - Area Open Project: un progetto eccezionalmente "progressivo"

Aggiornamento: 25 gen 2021


Che quelli che viviamo siano tempi difficili è cosa nota e fra coloro che più soffrono questa situazione di sospensione della vita normale ci sono certamente i musicisti, categoria nomade per elezione ma costretta all’immobilità dalle norme anti Covid. Non si suona, gli spazi sono chiusi, i tour annullati. Fra i tanti previsti e rimandati a data da destinarsi c’è anche quello di Area Open Project, la creatura di Patrizio Fariselli che ripercorre in nuove forme il glorioso lascito degli Area. Tour saltato anche per loro, tranne il primo (e per ora unico) concerto, tenutosi lo scorso 10 novembre all’Auditorium Parco della musica di Roma, ma in streaming e senza pubblico, così come tutti quelli del Roma Jazz Festival, nel cui cartellone era inserita la loro esibizione. Un live anomalo, che la sala vuota faceva somigliare più ad una prova che ad un concerto, ma che ha rappresentato l’occasione giusta per una piacevole conversazione con il Maestro sullo stato dell’arte, sua, ma non solo, spaziando dagli Area al Jazz passando per il liscio romagnolo. Insomma, per parlare di musica, che è sempre un piacere, soprattutto quando si ha l’occasione di farlo con uno dei musicisti più vivaci, poliedrici e importanti del panorama italiano.


Quando ha cominciato a suonare negli Area con Paolo Tofani, Ares Tavolazzi e i mai troppo compianti Demetrio Stratos e Giulio Capiozzo, aveva 20 anni ed è partito subito col botto, militando in una delle formazioni più innovative e influenti della scena, che ancora oggi rimane una delle stelle più brillanti e rappresentative della musica italiana di sempre. Nel corso del tempo poi, Fariselli e le sue tastiere hanno viaggiato in molte direzioni diverse, dal jazz alla musica mediterranea, dalla contemporanea all’elettronica fino alla musica per bambini, passando per le molte colonne sonore realizzate per il cinema, il teatro, la danza, la tv e le collaborazioni con artisti come Roberto Vecchioni, Eugenio Finardi, Mauro Pagani, etc.

Oggi il suo nome si specchia in quello degli Area Open Project, una formazione “modulare” con la quale produce nuova musica e rielabora quella del passato, in particolar modo quella targata Area.


Che sensazioni lascia un concerto così anomalo?


E’ surreale. La cosa agghiacciante è il silenzio assoluto quando finisce un brano. Certo, sapevamo di non essere realmente soli, che c’era tanta gente collegata per vedere il set e non solo dall’Italia, ma erano invisibili, intangibili, non si poteva sviluppare nessuna empatia. La musica è un fatto sociale, ci sarà un motivo se è stata sempre presente in tutte le strutture umane, no? Non vedo l’ora che finisca questo periodo assurdo.


Già, soprattutto se pensi che il tour bloccato dalla pandemia avrebbe dovuto promuovere l’ultimo lavoro discografico di Area Open Project, “Live in Japan”, un cofanetto pubblicato in Italia da Warner Music con due cd e un dvd registrati dal vivo nella terra del sol levante, dove il pubblico c’era eccome e ha tributato al gruppo un’accoglienza entusiastica. Sarà per questo che l’elenco di musicisti che hanno pubblicato dischi live registrati in Giappone è così lungo e ricco?


Quella giapponese è un’audience molto attenta e competente. Noi italiani in particolare godiamo di grande stima e attenzione, c’è perfino una rivista dedicata alla musica italiana. E’ un discorso che attraversa trasversalmente i generi; quando suoni in Giappone ti trovi di fronte un pubblico preparatissimo, che conosce ogni brano, ogni testo, ogni particolare. Per quanto riguarda gli Area poi, c’è una lunga storia di attenzione e apprezzamento. La King Records, la label che ha pubblicato lì il nostro live, è la stessa che stampava regolarmente i nostri dischi in tempo reale negli anni ’70. Era l’unica nazione al mondo che lo faceva e questo la dice lunga sulla disponibilità di questa audience meravigliosa. Poi consideriamo anche il fatto che il Giappone è una nazione altamente tecnologica e che loro amano, per formazione, documentare ogni cosa. E’ normale e scontato che ogni concerto venga accuratamente registrato e che alla fine della serata sia disponibile il cd per il pubblico, è proprio una forma mentale. Io sono già stato quattro volte a fare concerti in un teatro di Tokio e loro li hanno registrati tutti. Quando mi hanno proposto di fare un live da pubblicare, inizialmente non ero molto convinto. L’idea di fare uscire un album con l’80% di repertorio Area non mi convinceva del tutto, avrei preferito puntare sul materiale nuovo, che ne abbiamo tanto, compresi i pezzi del mio ultimo album solista “100 Ghosts”. Poi c’è stato il concerto e ci siamo divertiti moltissimo, con un pubblico straordinario che seguiva ogni alito dalla prima all’ultima nota con grande concentrazione fino ad un entusiasmante finale, regalandoci una profonda gratificazione. Sapevo quindi che il materiale sarebbe stato buono, ma quando ho ascoltato la registrazione, impeccabile (i giapponesi sono dei diavoli in terra da questo punto di vista) mi sono reso conto che quello era uno dei nostri migliori concerti degli ultimi anni. In particolare c’era la voce di Claudia Tellini che, per la prima volta cantava i brani originalmente cantati da Demetrio, che era una meraviglia. Così alla fine ho detto ok, abbiamo il nostro live in japan e me ne vanto perché è un lavoro meraviglioso, un documento magnifico del nostro percorso attuale.


E’ la prima volta che qualcuno canta quei brani dopo Stratos. La scelta di una voce femminile era forse l’unica strada possibile?


Io in questi anni mi sono dedicato alla musica strumentale e per il repertorio Area non ho mai voluto un'altra voce, sia per motivi affettivi che per non mettere in imbarazzo il cantante, anche rispetto al pubblico, che tenderebbe inevitabilmente a fare confronti. Nel caso di Claudia questo discorso cade, non tanto e non solo perché si tratta di una voce femminile. Claudia è una musicista, non solo una voce e ha questa capacità di far suo il materiale, evitando del tutto imitazioni o competizione con l’originale ma portando la sua propria musicalità all’interno delle canzoni. Inoltre ha la stessa estensione di Demetrio, quindi non c’è mai bisogno di cambiare tonalità.


Il fatto che il tuo nome sia strettamente legato ad un punto di riferimento così importante come gli Area, lo hai mai vissuto come un peso? Un limite alla tua espressività di artista contemporaneo? O al contrario lo senti come un punto di forza?


Direi che abbiamo imparato fin da subito a stare in guardia dall’affetto dei fan, che giustamente vogliono ascoltare le cose che amano. Li capisco bene perché anch’io amo quelle cose là. Però il rischio è perdersi in questa gratificazione, che questo approccio finisca per tirarti indietro. Io resto legatissimo agli Area, la considero l’esperienza più importante della mia vita, che mi ha forgiato come musicista e come uomo, fa parte del mio Dna e non mi darà mai fastidio se mi ricordi “i vecchi tempi”, può solo farmi piacere. Ma io sono un musicista abbastanza prolifico; ho fatto musica per bambini, per i cartoni animati, musica d’avanguardia, colonne sonore, classica perfino. Sono una persona curiosa e mi trovo a mio agio a sperimentare e conoscere cose nuove. Ti do uno scoop: sto preparando del materiale nuovo che uscirà il prossimo anno e che però ha un riferimento che i fan degli Area ben conoscono, “La mela di Odessa”. Pur avendola scritta io, conoscevo solo superficialmente la storia a cui è ispirato il brano, quella di un artista dadaista di nome Apple che nel 1920 dirottò una nave tedesca fino in Unione Sovietica, dove fu fatta esplodere fra grandi festeggiamenti dei rivoluzionari russi. Durante il lockdown ho approfondito quella storia, scovato e studiato tutta la documentazione dell’episodio e quindi ho deciso di scrivere il seguito della “mela di Odessa”, che si chiamerà “La foglia di Murmansk”.


Area Open Project, come si evince dal nome, è un progetto aperto che può assumere forme diverse, quali e quante?


Questa formazione, con Claudia Tellini alla voce, Marco Micheli al basso e Walter Paoli alla batteria, è uno dei miei quartetti, con il quale affrontiamo principalmente il repertorio Area. Poi c’è il trio strumentale con Giovanni Giorgi alla batteria e Caterina Crucitti al basso, che mi serve per sperimentare e macinare materiali musicali con i quali costruire poi altre cose. Questo trio, con l’aggiunta di Claudia alla voce, diventa il secondo quartetto Area Open Project, con il quale elaboriamo il repertorio nuovo. Il principio è un po’ quello di Frank Zappa, che aveva diverse formazioni per suonare cose diverse ma che facevano tutte capo al suo pensiero musicale. Io do molta importanza a questo principio per cui un artista deve innanzitutto avere un proprio pensiero musicale e che questo pensiero possa esprimersi in diverse forme sonore e diversi momenti di condivisione collettiva.


Possiamo dire che si tratta di un atteggiamento del tutto coerente con il tuo passato negli Area, una formazione che nella sperimentazione e nel rifiuto dei cliché trovava la sua ragion d’essere?


Sì, assolutamente. Noi abbiamo sempre cercato di sfuggire alla storicizzazione della nostra musica, non volevamo avere nulla a che fare con quelle che erano le “mode musicali” di quel periodo ma creare qualcosa che avesse valore di per sé. Per questo quando qualcuno faceva qualcosa che suonava in qualche modo ammiccante a certe tendenze del momento, veniva subito corretto dal collettivo. Ci abbiamo lavorato perché risultasse così, eravamo molto consapevoli di quello che facevamo.


Però vedi l’ironia della sorte: gli Area sono anche, sotto molti aspetti, il gruppo più rappresentativo di quel periodo, di quella cultura, delle tensioni delle emozioni, dell’atmosfera che si respirava in quegli anni. D’altra parte il repertorio di allora è ancora attuale e riesce a trovare il suo posto anche nel contemporaneo perché ha uno spessore tale da resistere all’usura del tempo. Non è affatto facile far coincidere i due aspetti e gli Area ci sono riusciti anche grazie alla speciale chimica che passava fra gli elementi del gruppo. E oggi? Vi sentite ancora? Avete qualche progetto insieme per il futuro?


Bèh, la reunion l’abbiamo già fatta dal 2010 al 2014, io, Tofani e Tavolazzi con Walter Paoli alla batteria, pubblicando un doppio live anche in quell’occasione. Quattro anni di concerti, anche all’estero, anche in America, insomma, ci siamo presi le nostre soddisfazioni. Oggi, fatto salvo l’affetto che ci lega, ciascuno ha interessi differenti. Paolo passa gran parte del suo tempo in India, preso dalla sua conversione all’induismo, mentre Ares si dedica molto al Jazz e suona soprattutto il contrabbasso.


Anche tu con il Jazz hai un rapporto molto, diciamo, intimo…


Sicuramente, io provengo da quel mondo lì, quella è stata la mia vera formazione musicale. Decisi di fare il musicista quando ascoltai Bill Evans a Bologna e ne rimasi folgorato. Da allora il mio amore per il Jazz e l’improvvisazione è sempre stato profondo e totale. Noialtri Area siamo tutti degli improvvisatori, perché siamo dei compositori e l’improvvisazione, è uno strumento fondamentale per lo sviluppo delle parti, potrei fare delle conferenze su questo argomento (e in effetti le fa davvero ndr.). Il Jazz è sempre presente nella mia visione del mondo, permea sempre il mio materiale, anche se solo una volta ho fatto un disco dichiaratamente Jazz, “Acqua liquida suite” in trio acustico con Massimo Manzi alla batteria e Paolino Della Porta al contrabbasso.


E come ascoltatore cosa cerchi nella musica?


Sono un onnivoro, ascolto davvero di tutto, purché riesca a riconoscerci dentro un grano di sale. Il mio obiettivo è riconoscere un pensiero, un’intelligenza, una musicalità. Io ho l’abitudine di fare delle gran passeggiate, un paio d’ore al giorno nel corso delle quali ascolto musica, saltando davvero di palo in frasca, anche grazie ad una serie di amici che mi mandano da sentire le cose più varie. Mi piace molto anche la radio, ma lì spesso ti trovi ad ascoltare il suono del pensiero unico, della standardizzazione dell’intrattenimento. Non che io sia contrario alla musica di intrattenimento, figurati, mio nonno, mio padre e mio zio suonavano nei locali da ballo della Romagna, ci sono cresciuto dentro a quella musica. Ma anche nel prodotto più commerciale cerco sempre quel famoso grano di sale.


Quindi le tue radici affondano anche nella tradizione romagnola…è buffo pensarlo di un musicista raffinato e colto come te.


Però è vero, anche se quando parliamo di tradizione romagnola parliamo di un mondo, al cui interno ci sono diversi distinguo. Per dire, un conto è il Liscio romagnolo alla Casadei, un altro è la musica romagnola che suonava mio nonno, che è un altro tipo di musica. Ha molto a che vedere col liscio, perché si parla sempre di valzer, polke e mazurke, ma non c’erano ancora quelle canzoni cantate, un po’ pacchiane che identificano la musica romagnola. Comunque sì, ci sono cresciuto dentro a quella tradizione, soffrendola anche un po’ al tempo, perché avevo altro per la testa a 18- 19 anni. Ma mio padre, che mi ha sempre appoggiato e aiutato, mi teneva un po’ a freno. Io scalpitavo ma lui sapeva che avevo bisogno di basi, musicali ma anche umane. E’ un periodo che ricordo con affetto, ricco di esperienze, formativo. Ma parliamo comunque di un mondo scomparso con i suoi riti sociali che oggi sono del tutto diversi. Per dirtene una, la considerazione che si aveva per l’orchestra era assoluta, non era mai considerata un accessorio per ballare. Quando c’erano i veglioni, per dire, a mezzanotte si mangiava e gli orchestrali avevano sempre il posto d’onore e un menù speciale, anche perché poi dovevi andare avanti a suonare fino all’alba! E come nel jazz saper improvvisare era indispensabile con concerti così lunghi. Anche se il repertorio era molto ampio non poteva bastare.


Le orchestre romagnole, il jazz, il diploma al conservatorio, gli Area e tutto il resto che è venuto dopo. La quantità di musica prodotta da Fariselli nel corso degli anni è enorme e di grande qualità. Si potrebbe anche dire soddisfatto in fondo, invece alla soglia dei 70 anni il Maestro ha ancora la voglia, la curiosità e l’entusiasmo di un ventenne; mille idee e progetti pronti a farsi strada verso il futuro, con sempre qualcosa di nuovo pronto a uscire dai suoi tasti. C’è da aspettarsi ancora molto da lui e noi non possiamo che star pronti ad accoglierlo, per sorprenderci ed emozionarci ancora una volta con la sua musica, che per fortuna non è di quella che “va di moda” ma di quella che resta nel tempo.

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