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Musica - Essere di destra e cattolici è il non plus ultra del PUNK!

Aggiornamento: 25 gen 2021


Se il pensiero mondialista equivale ad omologarsi, chi è “contro il sistema”, ci ripensa e volta pagina. Fragorosamente e coerentemente…


Dall’Anarchia in UK a Trump, da Lotta Continua a Giorgia Meloni, il mondo del punk in questi ultimi anni ha fatto molto discutere, lasciando a bocca aperta soprattutto coloro che forse punk non lo sono mai stati. Già, perché se alcune scelte sembrano effettivamente essersi allontanate dalle origini, molti giurano che si tratti di un’evoluzione in parte prevedibile.


Il primo a stupire tutti è stato Giovanni Lindo Ferretti.

Cantante e paroliere dei CCCP e di tutte le loro derivazioni, uno dei padri fondatori del punk, già da adolescente sposa la linea dell’impegno politico. Iscritto a Lotta Continua, al suo scioglimento aderirà al Partito Comunista Italiano. Dagli anni 2000 in poi però qualcosa cambia nel pensiero di GLF, che sul piano più spirituale ed intimo, abbraccia apertamente il cattolicesimo, e sul fronte delle prese di posizione sociali, vede la sinistra come “amica delle banche e delle lobby”. Così, dopo aver dichiarato il proprio sostegno al centrodestra, decide negli ultimi anni di formalizzare il proprio voto all’opinione pubblica, oscillando tra Salvini e Giorgia Meloni, che lo inviterà più volte ad Atreju, festa del suo movimento giovanile. Anche in politica internazionale Ferretti non rimarrà inerme, criticando Hillary Clinton, Papa Francesco e la Cina, prendendo in quest’ultimo caso le difese del Tibet e della sua spiritualità.


Ultimo in ordine di tempo colui che non ti aspetti, se non altro per essere sempre stato considerato il nemico acerrimo dell’ancient regime: John Lydon, forse più noto alle masse con il suo nome d’arte Johnny Rotten e come leader dei Sex Pistols. Oltre ad aver dichiarato di essere d’accordo con la Brexit, da neo residente negli USA ha preso parte alla campagna elettorale per le presidenziali, sostenendo apertamente Donald Trump: “«Sostengo Trump per le sue scelte economiche di fronte a Biden. Che considero un incapace»”.


Se aggiungiamo un’icona pop-rock, post punk quale Morrisey, che addirittura è in guerra con l’opinione pubblica britannica per le sue simpatie nei confronti del British National Party, abbiamo tre indizi, cioè quasi una prova.


Cosa sta succedendo? Possibile che un’ala della musica considerata tra le più ribelli improvvisamente abbia virato totalmente verso posizioni in alcuni casi nazionaliste?

Proviamo a fare una breve analisi prendendo spunto da Gianni Borgna, studioso di certo non ascrivibile all’area conservatrice, sociologo musicale, che nel 1997 aveva teorizzato il motivo per cui giovani, artisti ed esponenti delle controculture, pur mantenendo lo stesso atteggiamento e le stesse motivazioni di ribellione, si ritrovano a schierarsi ciclicamente su posizioni diverse a seconda del periodo e del contesto storico.

In un suo saggio, Gianni Borgna, dopo aver spiegato il perché nel ‘900 i giovani furono attratti da diverse ed opposte ideologie, affronta il tema della cultura giovanile, in special modo in campo musicale.


Una cultura che ha come componente essenziale l’ambiguità.


Fin dal principio, da Elvis a Jerry Lee Lewis, il rock esprime allo stesso tempo la “carica di violenza di una futura opposizione e l’energia necessaria per vincere nella grande gara capitalistica della mobilità sociale”.


La domanda culturale e di identità proveniente dai giovani, una potenziale opposizione ad ogni forma di potere per lo più gerontofilo, invece di scontrarsi come sarebbe naturale, si fonde con il mercato reale, rappresentato in ogni epoca da filoni diversi. Nei decenni scorsi dall’espansione della produzione discografica, oggi probabilmente dalle infinite potenzialità del web e dei social.


Da fine anni ’50 ad oggi il rock, il punk ed altri generi affini hanno rappresentato la disappartenenza, il desiderio di rompere con i valori delle generazioni precedenti, con i genitori. I movimenti pelvici di Elvis, “My Generation” degli Who (“spero di morire prima di diventare vecchio”), Neil Young che inizia la sua “Ohio” prendendo per i fondelli con tanto di citazione il presidente Nixon, sono solo degli esempi di carica eversiva all’epoca nuova ed intrigante.


In molte culture antiche nei “momenti critici” dell’anno veniva mimata con dei rituali la distruzione dell’ordine imposto, semplicemente per poi ricostruirlo, magari con delle concessioni culturali.


I primi raduni di massa, i concerti storici e fantastici che segnarono quella generazione, sembrano quasi prendere spunto da questi rituali dell’antichità, dei veri e propri modelli di “calendario arcaico” che, attraverso l’eversione ed il caos, avevano i loro “giorni consentiti” in cui poter distruggere e ricostruire regole e morale.


La musica ed il rock diventano così un fattore di adattamento sociale.


John Sinclair, poeta del “White Panther Party”, distingueva tra la low-energy life e la high energy life: “Più la nostra musica si faceva ad alta energia, più il sistema cercava di ucciderla”.


Una concezione di vita che si contrappone alla terribile monotonia della routine quotidiana.


Il punto focale, di rottura, che può portarci a cambiare idea e ci riporta al tema di questo articolo, arriva quando la cultura, la sottocultura, la controcultura o quello che volete, comincia ad assumere degli atteggiamenti commerciabili, vendibili, oppure, faccenda ancora più grave, può essere facilmente riassorbita ed integrata dall’ordine vigente o da una parte di esso, anche da una semplice fazione politica di massa.


Ed ecco che i vari Johnny Rotten o Ferretti non sono più “diversi”, “altri”, ma iniziano a sentirsi banali, addomesticati, “identici”. E sono costretti a due scelte: diventare esempi del sistema o dichiarare guerra a quella società e parte politico-culturale che li ha assorbiti e dalla quale sono stati fagocitati.

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