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Carlomanno Adinolfi

BLUE EYE SAMURAI SU NETFLIX

Aggiornamento: 19 dic 2023


Giappone, 1657. Siamo in pieno periodo feudale, lo shogunato ereditario Tokugawa si è insediato da appena mezzo secolo, il Giappone uscito dalla guerra civile del periodo Sengoku si è isolato vietando ogni contatto con l’esterno, impedendo a qualunque straniero di entrare nei suoi territori. Qui si muove Mizu, un ronin esperto di arti marziali e combattimento con abilità tali da renderlo l’assassino più letale del Giappone. Mizu ha una particolarità che tiene nascosta con occhiali scuri: ha gli occhi azzurri. È infatti il figlio bastardo di un bianco e di una giapponese. Perché nonostante le leggi, quattro mercanti inglesi senza scrupoli sono ancora in Giappone per curare i loro affari. Ma ha anche un’altra particolarità, che tiene anch’essa nascosta come la prima: è una donna. Mizu è odiata per i suoi occhi azzurri. È considerata un demone. Fin da bambina le davano la caccia per ucciderla, i suoi coetanei la odiavano e la prendevano a sassate. Cresciuta in questo clima d’odio, nascosta costantemente dalla madre, Mizu trova il suo centro grazie a Maestro Eiji, soprannominato “Padre Spada”, un fabbro cieco ritenuto il più grande forgiatore di armi del Giappone e che diventa tutore di Mizu, insegnandole l’arte di forgiare così come quella di entrare in armonia con la propria anima e con gli spiriti che abitano e animano il mondo. Mizu ha un solo obiettivo nella vita: trovare i quattro bianchi che erano presenti in Giappone durante la sua nascita e ucciderli. E perseguirà l’obiettivo senza curarsi di chi vi si opponga: uomini, guerrieri, affaristi criminali, signori feudali o interi eserciti. Una missione di vendetta che lascerà dietro di sé una lunga scia di sangue e morte, ribaltando i destini dei personaggi che incontrerà lungo il cammino. Personaggi come Akemi, figlia di un grande daimyo di un clan in ascesa, che ama disperatamente il giovane samurai Taigen ma che è invece promessa sposa al secondogenito dello Shogun. O come lo stesso Taigen, povero ma eroico samurai, che cerca di riscattare la sua origine povera diventando il miglior samurai del Giappone ma che troverà la rovina proprio a causa di Mizu, perdendo la sua Akemi. O Ringo, il cameriere storpio e forse ritardato, trattato come un animale da tutti coloro che lo circondano e che cerca il riscatto seguendo Mizu, dopo averlo unilateralmente scelto come suo maestro.


Nulla è come sembra

Leggendo superficialmente trama e tematiche e tenendo a mente che si tratta di un prodotto Netflix, Blue Eye Samurai sembrerebbe il mix perfetto e letale per il solito polpettone woke pieno di messaggi di inclusivismo, femminismo, progressismo e chi più ne ha più ne metta. E infatti questa è la predisposizione con cui molti, compresi noi, ci siamo approcciati al primo episodio della serie. E invece… e invece abbiamo trovato è tutt’altro. A ben vedere la donna guerriero, l’amore impossibile, la principessa in cerca di libertà e il tentativo di riscatto di uno storpio sono tematiche che esistono da quando esiste la narrativa e, forse, l’uomo stesso. Ma è sorprendente vedere che, per una volta, non siano state declinate nel solito modo trito e ritrito degli ultimi anni. Vuoi perché gli ideatori siano tutto meno che woke e abbiano “scaltramente” usato certi temi per mascherare una storia ben diversa, vuoi forse perché a furia di estremizzare certe tematiche alla fine arrivi al cortocircuito di negare la tua stessa ideologia, vuoi forse – nel caso più negativo possibile – che questa prima stagione sia stata solo un’esca per poi esplodere nel più trinariciuto bigottismo woke più avanti, sta di fatto che questa serie è qualcosa di veramente clamoroso. Partiamo dal tema del “mezzosangue”. Mizu non cerca integrazione, non sogna un mondo dove anche i mezzosangue possano vivere in armonia con gli etnicamente puri. No, lei odia i quattro bianchi perché il loro violare la legge e l’armonia giapponese l’hanno resa un mostro. Lei è alla ricerca dei quattro perché sa che uno di loro ha messo incinta la madre e l’ha resa qualcosa di cui lei stessa si vergogna. Un ribaltamento totale della prospettiva, che la stessa Amber Noizumi, scrittrice della serie, ha voluto inserire come fulcro della storia. Scordatevi quindi la battaglia lacrimosa del diverso che vuole essere accettato. Mizu non cerca accettazione ma solo vendetta. Tra l’altro il multiculturalismo che ovunque è visto come un valore positivo, qui diventa di colpo quanto di più negativo possibile. Per tutta la serie la scelta giapponese di isolarsi per preservarsi viene vista come la scelta giusta che le politiche mercantili, opportuniste e capitaliste dei quattro inglesi vogliono mettere in discussione. Le parole di Fowler, il villain di questa prima stagione, sembrano una condanna senza se e senza ma del globalismo che vuole sradicare le culture. Dice infatti: “farò in modo che spalanchiate i vostri confini all’Occidente, inonderemo la vostra terra con la nostra gente, la nostra musica, la nostra vergogna, il nostro cibo, finché non riterrete una brutta faccia come la mia più bella di una delle vostre”. Si potrebbe forse vedere come una condanna al “colonialismo bianco”, ma sarebbe una lettura superficiale e anche un po' sciocca considerato che l’ambientazione nel Giappone feudale non permette simili allacci storici, politici e ideologici. Anche perché nella serie non c’è la colpevolizzazione del bianco in quanto tale o dell’europeo colonizzatore. Fowler non dice “noi bianchi”, non dice “noi europei”. Dice “noi inglesi”, perché l’unica accusa che viene fatta è verso chi vuole sradicare le culture in nome del profitto e questo, nella serie, viene riferito a una sfera ben precisa.


L’eroe femminile

Anche il tema femminile è declinato in modo tutt’altro che superficiale e politicamente corretto. Mizu è una donna che si veste da uomo per nascondere le sue origini e per essere presa “sul serio” come assassino. Eppure lei ha chiaro in ogni minuto il fatto di essere donna. Non esiste un singolo istante nella serie in cui dia l’impressione di essere “fluida” o di confondere il suo sesso biologico e il suo “genere”. Nei dialoghi interiori e nei pensieri si riferisce sempre a se stessa al femminile, nonostante fin dalla tenera età abbia nascosto il suo sesso, si sia dedicata all’arte di uccidere e si sia riempita di odio, la sua sessualità resta sempre femminile. Tanto che più di una volta “cede” alle pulsioni sessuali che le vengono provocati dalla virilità di alcuni personaggi. Evidentemente per chi ha scritto la serie il genere non è un costrutto sociale, il fatto di aver vissuto sempre da uomo non uccide il femminile che è in Mizu e se ella rifiuta l’amore è solo perché questo la distrae dalla missione omicida e perché le provoca dolorosi ricordi. Ricordi che chiariscono una volta per tutte la sessualità assolutamente definita di Mizu. L’elemento lgbt è infatti del tutto assente nella serie, e questo è quantomeno sorprendente per un prodotto originale Netflix. Altro elemento interessante è che Mizu è lontanissima dallo stereotipo “donna forte” degli ultimi anni (stereotipo che molte attrici, come ad esempio Emily Blunt, hanno condannato perché appiattisce la caratterizzazione femminile) visto che la sua caratterizzazione è avulsa da ogni complesso di inferiorità o volontà di emancipazione a suon di botte al genere maschile. Certo, lei è una “kick-ass” e passa la maggior parte del tempo della serie a uccidere uomini, ma il fatto che proprio una donna possa essere l’assassino più letale e forte del Giappone – al di là della sospensione di incredulità – non viene mai fatto passare come una rivendicazione di genere o come una ricerca di equality. E poi c’è il ruolo Padre Spada. Maestro Eiji rappresenta il polo spirituale ed etico positivo che forgia l’anima di Mizu, contrapposto all’anima perfida, egoista, materiale e utilitarista della madre della ragazza. Ma come, un padre che rappresenta l’alto e una (finta, come si vedrà) madre che rappresenta il basso? Fino a poco tempo fa sembrava impossibile una cosa simile senza l’accusa del peggior patriarcato. Eppure così è in Blue Eye Samurai.


La libertà della donna

Sullo sfondo, come abbiamo anticipato, c’è anche la storia d’amore impossibile tra la nobile Akemi e il giovane samurai Taigen. Akemi vorrebbe sposare il guerriero, ma lei è destinata dal padre, un daimyo in cerca di legami di potere, al matrimonio con il secondogenito dello Shogun. Akemi fugge. Vuole essere libera: libera dai legami familiari, libera di andare dove vuole, libera di sposare chi ama, libera di scegliere il proprio destino. Rifiuta il fatto che una donna possa essere trattata come una proprietà. Rifiuta un mondo in cui per la donna sono possibili solo alcune strade. Poi si scontra con la realtà. Emblematica è una scena in cui Akemi riceve in dono un uccellino in gabbia e, dopo una sorta di transfert in cui si identifica con l’animale, lo libera perché non vuole che esso viva prigioniero come lei. L’uccellino, non sapendo cosa sia la libertà, muore poco dopo imbattendosi nella natura selvaggia. La stessa cosa succede ad Akemi appena scappata per fuggire dal matrimonio con lo sconosciuto figlio dello Shogun e per ritrovare l’amato Taigen, alla caccia di Mizu per motivi personali. Nel suo viaggio nella realtà selvaggia al di fuori della prigione dorata del palazzo del padre, Mizu scopre un mondo feudale in cui non è solo la donna ad avere a disposizione solo alcune strade prefissate, ma tutti. E che lei, in quanto rampolla di un nobile daimyo, ha in realtà molte più possibilità della quasi totalità delle altre donne. La parabola di Mizu, che nel frattempo ha incontrato molte donne capaci di esercitare il potere proprio in quanto tali, è tale che finirà non tanto per accettare, ma per volere lei stessa la strada che le era stata prefissata inizialmente. Una strada che però, grazie alla sua abilità, è ora in grado di controllare per esercitare il potere. Sembra quasi una parabola pirandelliana in cui la giovane che per tutta la vita ha voluto vivere libera dalle maschere e dai ruoli imposti dalla società ora assume invece il proprio ruolo e la propria maschera, ma diventando protagonista agente anziché personaggio agito. Perché quello è l’unico modo che esiste per poter veramente realizzare se stessa. “Mi è stato detto che finalmente posso fare ciò che voglio. Ebbene ora ho capito che non voglio scappare. Non voglio la tranquillità e la felicità, io voglio la grandezza”


La ricerca della grandezza

Essere grandi. Alla fine è questa la “morale”, se così vogliamo chiamarla, che permea Blue Eye Samurai. Personaggi che all’inizio cercano solo la vita tranquilla, i due cuori e una capanna, di colpo capiscono che quella non è la vera vita. “Voglio essere il migliore al mondo almeno in una cosa”. Questa la frase che spinge Ringo, il cuoco menomato e tontolone che si autoproclama scudiero di Mizu e che, bene o male, influenzerà tutti i personaggi. “Ho sempre creduto che non avrei mai raggiunto la grandezza, ma ora l’ho vista e voglio fare di tutto per avvicinarmici”. Un concetto che, come abbiamo visto, farà breccia anche nel cuore di Akemi. E la ricerca della grandezza dipende tanto dalla volontà quanto dallo spirito e dall’aiuto del divino. Che rimane sempre lì, sullo sfondo, presente eppure silenzioso. Presente nelle preghiere di Mizu e nei continui omaggi che ella fa nei templi che incontra per strada, poiché la vita aspra a cui è stata costretta non l’ha mai allontanata dai kami. Presente nel rito di primavera a cui partecipa Ringo, una scena epica in cui al ritmo di tamburi taiko egli sfida una città intera per accaparrarsi le sacre bacchette che permetteranno di esaudire i desideri. Presente negli insegnamenti di Padre Spada, che fa della forgia delle spade un vero e proprio tempio in cui anima e acciaio vengono lavorate e temprate allo stesso modo. Presente nella meravigliosa scena della catarsi di Mizu, preda della furia diabolica e di un ego ipertrofico che l’hanno portata alla sconfitta, che si fa ricoprire ritualmente il corpo dai versi del sutra del vuoto – una scena che non può non ricordare Conan il Barbaro ricoperto di rune – per poter affrontare il fuoco purificatore che libererà lei e il nuovo acciaio.


Giudizio finale

Blue Eye Samurai è sicuramente un’opera di qualità. Pur non essendo giapponese al 100% (Noizumi è solo per metà giapponese, come Mizu, il resto della produzione è americana) trasuda amore per il Giappone e per la sua anima immortale. È piena di omaggi musicali (lo scontro con un guerriero-demone sotto l’effetto di allucinogeni mentre sullo sfondo romba For Whom The Bell Tolls dei Metallica è pura goduria, ma ci sono anche omaggi alla colonna sonora di Zimmer de L’Ultimo Samurai e al tema di Kill Bill) e cinematografici (dai chambara al pop giapponese) senza mai scadere nel citazionismo, è originale non solo per la trama ma anche per la totale destrutturazione dei temi woke, ma soprattutto è una bella serie: azione, filosofia, etica, politica, c’è tutto ed è ben mescolato con una crudezza che le ha fatto guadagnare un rating di pubblico 16+ proprio per la violenza estrema e il sesso esplicito. Il tutto con uno stile animato nuovo a metà tra il disegno e la CGI 3D che tuttavia lo fa risultare lontanissimo dalle animazioni in computer grafica fredde e finte dell’ultimo periodo (pensiamo a Dragon’s Dogma) ma che ricorda piuttosto i mix animati e tecnologici rivoluzionari dell’ultimo Gatto con gli Stivali, che danno l’idea di una nuova forma artistica in rampa di lancio e piena di potenzialità. Non resta che attendere il seguito, anche se il finale aperto con cliffhanger fa pensare a un setting per la seconda stagione lontano dal Giappone. Vi prego: non rovinate tutto!


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