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Faccia a faccia col Barone

Aggiornamento: 19 gen 2022


Capita talvolta che da un cassetto riemerga qualche vecchia foto che non ricordavamo di aver scattato. Polaroid opache, o magari nastri che non sapevamo più di aver registrato. A volte invece – e il caso è questo – c’è chi certi ricordi li tramanda volutamente. E se ne capiscono subito le ragioni, quando a andiamo a frugarli. Un gruppo di giovani in visita al Maestro. I gerarchi del Terzo Reich che fumano cattivi sigari. La polemica anticristiana sull’Altare della Vittoria. La magia sessuale. Le vie per l’Iniziazione. Il mondo magmatico della destra neofascista degli anni ‘70. Può bastare? Ma meglio andare con ordine.

Dalla lettura delle due interviste a Julius Evola riunite nel volumetto “A colloquio col Barone” (Cinabro Edizioni, 93 pagine, 2020), i ricordi si riaffacciano sgranati, in bianco e nero. Fuori scoppiano le bombe, l’Italia si avvita sempre di più in quella che diventerà la parabola nefasta degli opposti estremismi, ed è alla chetichella, con fare carbonaro, che alcuni ragazzi penetrano invece nel sancta sanctorum romano dove li attende il Vate della Destra tradizionale, per alcuni barone maledetto delle trame nere. Hanno l’occasione più unica che rara di parlargli, di porgli interrogativi sulla via che hanno scelto di seguire, e che nonostante tutto gli appare ancora nebulosa. Fatto ancor più eccezionale, l’incontro sarà registrato.

E’ dunque una sorta reliquia – il nastro della conversazione, conservato per decenni, risale al 1973 – la prima delle interviste proposte nel libro, un reperto però in grado di mostrarci una realtà altrimenti affidata fino a adesso solo a racconti e memorie. L’Evola di quegli anni, ormai prossimo alla morte, vi figura come una sorta di disincantato mentore, idolo vivente per i giovani amanti della Tradizione che si avventurano ad omaggiarlo. Benevolo di fronte agli ardori e alle ingenuità di un gruppo di ventenni che si affatica sulle pagine di “Rivolta contro il mondo moderno”, appare intento a seminare, più che spiegare, conscio che solo la ricerca di una vita fornirà a quei ragazzi “l’iniziazione” cui ambirebbero sottoporsi subito, con lo zelo di un gruppo di apprendisti stregoni. Le rovine in mezzo cui restare in piedi sono monoliti enormi - prova a spiegare - e la mera conoscenza intellettuale non basta per tramandare una Weltanschauung al tramonto, e ciò sebbene la dottrina che le soggiace sia eterna. Inutile perdersi in fantasie di “restaurazione” paganeggianti; meglio invece recidere i legami con un mondo inadatto ad accoglierle.

Meno vaticinante e assai più smaliziato, è viceversa il secondo colloquio riportato. Non più la sbobinatura di una cassetta, bensì la riproposizione di un’altra intervista perduta, pubblicata per la prima volta in Francia nel 1970 fra le pagine del volume Ave Lucifer, saggio la cui impostazione pare da un lato attingere al realismo fantastico di Bergier, dedicato com’è al ruolo delle discipline esoteriche nel mondo moderno, e dall’altro si configura quasi come remoto addendum a “La guerra occulta” di Malinsky.

In una tale cornice Evola, qui definito “eminenza grigia dell’Italia fascista”, è inserito dall’autrice Elisabeth Antébi nel novero di coloro che, nell’alveo del sapere magico e sapienziale, avrebbero portato avanti nel XX secolo un cammino lontano da deviazioni telluriche e infauste. Ciò premesso, il dialogo spazia in verità in maniera un po’ incongrua fra molti argomenti, per lo più estranei a quelli indicati; Evola tuttavia li riconduce tutti, caso per caso, all’ambito del loro valore esoterico, pur mescolando ampiamente ricordi personali (il suo periodo dada, i viaggi in Germania presso la corte sinistramente bislacca di Himmler) a citazioni dei principi dottrinali tradizionali, con poche o punte concessioni ai pudori dei cuori teneri. Quando il Barone riafferma il suo pensiero sull’ebraismo in senso ideologico infatti, oppure sull’omosessualità in relazione alla democrazia, o ancora al rapporto ideale con la donna, lo fa con l’orgoglio calmo del pluriscomunicato. E veniamo così al punto.

Come valutare, dismessi ogni pregiudizio e ogni riverenza, il valore documentale del materiale qui riproposto? C’è poco da discutere: anche coloro che non hanno mai considerato Evola alla stregua di uno dei cattivi maestri della generazione di militanti della Destra post bellica, difficilmente riusciranno ad apprezzare qualcosa del mondo per loro alieno e ostile evocato dalle parole del Barone. Troppo antimoderno, troppo fossile rispetto ai canoni della contemporaneità, che nei fatti non concepisce l’alterità spirituale se non per condannarla. Insomma, roba che puzza di fascismo, e per di più è vecchia, proprio gli unici due peccati mortali rimasti, e forse il secondo è anche peggiore.

Altrettanto ostico l’approccio di chi voglia ricondurre in un mero recinto di speculazioni intellettuali quanto dell’avventura evoliana riemerge dalle interviste. Il cenacolo di Corso Vittorio Emanuele non faceva infatti accademia (sebbene riemergano – frequenti - consigli di lettura, indirizzi, citazioni ) ma voleva essere, nella visione sacrale di chi lo frequentava, uno degli snodi tramite cui la Tradizione si perpetuava a dispetto di un presente fatto di delusioni e aridità tanto politiche quanto personali.

Il modo migliore d’intendere il recupero questi due messaggi in bottiglia finalmente ritrovati, dunque, è probabilmente quello di apprezzare l’occasione rara per osservare un Evola meno crepuscolare e più umano, tagliente fino al disprezzo nell’indicare la decadenza fatale di uomini e cose, ma anche sarcastico e ammiccante, come quando racconta di spericolate correzioni operate ai danni Mussolini in persona riguardo improvvidi strafalcioni su Platone. Una persona in carne ed ossa, insomma, non solo l’anziano profeta della Tradizione dei primi anni ’70, che i discepoli osano appena interrogare balbettando esitanti. Per chi ancora oggi desidera riscoprirne l’opera, forse il tesoro più grande.

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