Una premessa ha accompagnato il viatico a Draghi da parte del Presidente della Repubblica. Essa dice: attorno a questo nome i partiti devono trovare una maggioranza allargata, perché tanto non si vota. Secondo alcuni, una scelta fatta guardando a sondaggi e precedenti, per evitare una vittoria del centro destra.
Su questa premessa, che ha avuto l’effetto di rasserenare gli animi dei parlamentari che rischiavano di uscire dalle Camere anzitempo e con poche o punto possibilità di rientrarvi, Draghi si appresta, dunque, a costituire un governo con le forze politiche che si staranno.
La domanda che dobbiamo porci è: cosa conviene fare ad una forza politica che si è spesa fino in ultimo nel richiedere il ricorso alle urne? Proviamo ad analizzare i pro e i contro del rimanere all’opposizione e dell’entrare in maggioranza.
In un governo “tutti dentro”, chi sta fuori può contare sulla rendita di opposizione. Ci si smarca dalle decisioni difficili che il governo dovrà prendere e si intercetta una parte del consenso di quelle forze politiche che si sono rivelate incollate alla poltrona, con chiunque e purché sia.
La coerenza in politica paga, anche se, l’attuazione di una strategia conservativa alla lunga potrebbe produrre un ridimensionamento del consenso potenziale, almeno del cosiddetto voto utile. Poiché chi vota un partito di solito lo fa perché vuol vederlo governare, non certo per vederlo collocato all’opposizione.
Se il perimetro delle attività del governo che verrà è definito e non contrasta con gli elementi cardine del proprio programma elettorale, non si capisce per quale motivo una forza politica non possa entrare nella maggioranza e determinarne così anche le scelte.
Far parte di una coalizione che è già attrezzata per essere forza di governo, vuol dire mostrare unità di intenti e questo dovrebbe essere sempre un valore da preservare. Oltre a ciò, un ingresso nella maggioranza non sarebbe stato privo di effetti collaterali tra coloro che hanno sostenuto il precedente governo. Soprattutto tra quanti alzano muri “o noi o loro”.
Insomma, il chiamarsi fuori aprioristicamente rischia di esser autolesionistico, per quanto, il mantenersi sulle proprie posizioni potrebbe produrre un travasamento di consenso, erodendo quelle quote di elettorato di alleati ed avversari che dopo le esperienze dei governi bicolori non accettano ulteriori compromessi.
Se il Presidente della Repubblica vuole una maggioranza allargata, questa non dovrebbe essere preclusa a nessuno. Un eventuale no, consentirebbe di evidenziare la malafede di chi si è già seduto a quel tavolo, mentre un sì modificherebbe dall’interno gli assetti di governo da sinistra verso destra.
Una strategia che, anche qualora vedesse un impedimento ad entrare in una maggioranza allargata, porterebbe altre forze politiche a chiedere le elezioni anticipate, rendendo possibile proprio l’eventualità fin qui negata dal Presidente della Repubblica.
Il futuro governo Draghi ha due partite da giocare: l’elezione del Presidente della Repubblica e come investire i soldi del Recovery Fund. Il primo è per alcuni la possibilità quasi unica di eleggerlo; il secondo, determinerà la linea politica di coloro che vinceranno le prossime elezioni.
Chiunque sarà, sarà costretto a gestire le risorse sulla base degli investimenti programmati dal nascente governo. Ed essere tra quelli che li programmano e quelli che li eseguono, passa tutta la differenza del mondo.
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