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Il ritorno dei CCCP e le immondizie musicali sanremesi spacciate per punk!

Quasi 50 anni di controcultura tra caos musica, cinema, letteratura e mercato.


C'era una volta il Punk. Negli anni ‘70 faceva impressione, con quelle spille da balia infilate un po’ ovunque. Quel nichilismo d’assalto. Quella rabbia solo apparentemente antiestetica. Il punk nacque tra Londra e New York sulle macerie della retorica del’68 come risposta delle classi povere a quelli che oggi definiamo radical chic, e cioè i contestatori da salotto bene. Il punk nacque come forma reazionaria contro tutto ciò che era percepito come reazionario, dal capitalismo al conformismo, ma musicalmente, il punk fu un’onda che travolse l’opulenza musicale e contenutistica del rock progressivo. Una mezza dozzina di anni di brani lunghi 12 minuti con interminabili suite avevano fatto scattare il grilletto: riappropriarsi della possibilità di suonare! Un imperativo. Indipendentemente dalla capacità. Un “esproprio proletario” per riportare la musica nelle periferie del pentagramma. Un calcio agli stinchi o ai testicoli dei primi della classe. Meno conservatorio, più libertà di tentare. Più importante il fare del fare bene. In realtà, Johnny Ramone dei Ramones e Mick Jones e Joe Strummer rispettivamente chitarra ritmica e solista dei Clash, non se la cavavano affatto male. E non era scarso neppure Steve Jones dei Sex Pistols, che in carriera vanta collaborazioni con Jhonny Thunders (So Alone), Iggy Pop, David Byrne oltre al super gruppo dei Neurotic Outsiders. Non dei virtuosi in senso stretto ma non era neppure necessario che lo fossero e siano, ma neppure quei chitarristi scolastici come certa stampa si divertì a definirli.



Una manciata di anni dopo, negli anni ‘80, con la sua capacità di influenzare il rock e il pop, se ne percepì la portata ben oltre gli intenti dei Sex Pistols, Clash, Strangles, Ramones, Heartbreakers, Generation X, Blondies, Boomtown Rats e Police.



Plasmato in qualcosa di poetico e dolente da Jan Curtis coi suoi Joy DIvision, il punk conobbe nuovo impulso nel rock alternativo degli U2, nella carica gothic dei Cult, nei labirinti musicali dei Cure, nel primo album, manifesto neo romantico dei Duran Duran, nel grido ribelle di Billy Idol, nell’eredità dei Big Audio Dynamite, nella presa di coscienza sociale degli Smiths.



Il termine punk con la sua fenomenologia deflagrò penetrando nei linguaggi, tant’è che Bruce Bethke lo combinò con “Cyber” per il titolo di un suo racconto, seppure fu William Gibson a determinarne l’affermazione con Fragments of a Hologram Rose (1977), nel quale conferì forma alla sua estetica dolente, decadente, virtuale e postumana in cui prefigurava, trasfigurandolo, un futuro caotico non troppo dissimile dalla realtà in cui siamo calati. Un processo non dissimile da quello che avviò nel medesimo momento Bruce Sterling con Oceano (Involution Ocean), romanzo dichiaratamente new wave.  


Malcon McLaren

Stranamente proprio il fenomeno musicale-culturale-sociale che aveva come propulsore la lotta di classe, ebbe come contrappeso la speculazione. Inglobato, fagocitato, metabolizzato nel e dal mercato, il punk divenne per certi versi un cavallo di Troia, “contestate, spaccate tutto, basta che comprate!” Malcom McLaren non lo disse mai apertamente ma certamente lo pensava mentre assieme a Vivienne Westwood trasformava anfibi, giubbe militari e bomber, vale a dire le uniformi dei punk, skin heads e rude boys inglesi e seguaci del 2 tone ska in capi alla moda all’interno di quella mecca delle controculture che fu Sex, il negozio al numero 430 di King's Road. Da noi accade più o meno lo stesso, Bacillaro a Via Laurina, Cantieri del Nord a Via del Corso, Degli Effetti in Piazza Capranica e NRD a Borgo Pio, si impongono come luoghi culto dove acquistare chiodi, giacche e cappotti neri e tutto ciò che fosse riconducibile alle sottoculture punk, dark, neo romantic. Quattro negozi centralissimi, nulla di più lontanamente suburbano, il che apre una discussione, fino a che punto fu reale dissenso giovanile in opposizione al conformismo e consumismo massificati e dove cominciò la moda? Con ogni probabilità sono vere entrambe le realtà, la moda non poteva rimanere estranea a un fenomeno tanto esplosivo che investì ogni ambito sociale e culturale. Non deve sorprendere o peggio, scandalizzare se il meglio dei figli creativi di quella generazione come Jean Paul Gaultier, Yohji Yamamoto, Romeo Gigli, Thierry Mugler, Katharine Hamnett, Calugi & Giannelli, Marithé e Francois Girbaud, Roberto Botticelli, Piero Panchetti fino alla stessa Westwood, nel comprenderne la vocazione alla rottura degli stereotipi e la forza seduttiva, ne trasfigurarono gli stilemi in espressione creativa. Semmai fa sensazione osservare come a distanza di decenni tanta energia sia stata metabolizzata fino ad entrare nei salotti buoni della moda, ma se da un lato si avverte un certo “imborghesimento”, dall’altra, certe intuizioni come le t-shirt “muccate” di Moschino e i jeans in pelle da byker di Dolce & Gabbana e Versace o sul fronte performativo, la storica sfilata di Emilio Cavallini in un teatro a luci rosse di Pigalle, rimangono momenti di grande trasgressione dal respiro punk. Parallelamente alla moda, anche il cinema non rimane estraneo, Suburbia, del 1983 è l’opera folle e tossicamente neorealista di Penelope Spheeris, spaccato impietoso in una Los Angeles alienante. Un cazzotto nello stomaco in cui la città degli angeli diventa una terra di nessuno per giovani disperati. Suburbia offre una prospettiva geograficamente diversa e disturbante, il punk dove non te l’aspetti. Non c’è nulla dello scenario ben scolpito nell’immaginario collettivo, la pioggia, le cabine rosse, i taxi neri, i pub e le case popolari preda degli squatters nei sobborghi londinesi, qui siamo lontani anni luce, siamo a pochi passi dalle spiagge di Malibù e dalle colline di Hollywood eppure è tutto desolatamente cupo.



Contando anche Syd e Nancy, biopic non completamente convincente nonostante la grande prova di Gary Oldman, in termini assoluti, la cinematografia a tema non è né vasta né particolarmente interessante (chi lo ricorda Classe 1984?), meglio forse le sublimazioni come la scena nel garage stracolmo di punk che fanno pensare agli zombie messi in scena da quel geniale campione di caos organizzato che è stato Francesco Nuti mai compianto abbastanza o la Pris e il Roy Batty di Blade Runner coi loro capelli ossigenati e gli occhi truccati.


Quanto a noi, eccetto gli  Skiantos; quella deflagrante meteora dei Rats, i Gaznevada con quel fior di album che è Sick Soundtrack e gli Champagne Moltov-Decibel (Enrico Ruggieri e soci che tra i mille prodigi non solo portarono Contessa a Sanremo e fu quasi una profanazione ma  aprirono i concerti di Heartbreakers, Xtc e Adam And The Ants) oltre a Jo Squillo, Rettore e Oxa (ma su un fronte pop), gli unici  in grado di uscire dall’amatorialità e ad averne offerto un afflato personale, disturbante,  provocatorio e parimenti intellettuale, sono stati i CCCP, guidati da quel poeta-giullare di Giovanni Lindo Ferretti, voce, testi e carisma, assecondato da Massimo Zamboni con la sua chitarra minimalista e corrosiva.


Ma sono riconducibili al punk o almeno a un rock alternativo, che poi in Italia il rock è talmente raro da essere sempre alternativo, anche Alberto Camerini su un versante rock’n’ roll, Maurizio Arcieri e Christina Moser dei Chrisma, che si mossero tra new wave, synth pop e l’elettronica con quel respiro punk di Chinese Restaurant che ne fece dei dirompenti precursori. Prima dei CCCP, c’erano i Chrisma e sulla scia, con connotazioni new vawe, i Diaframma, Denovo, Garbo e Litfiba. Intriganti furono anche certe incursioni post punk, new wave dei Matia Bazar (elettrochoc e Il video sono io) con Mauro Sabbione alle tastiere “… Di primo acchito la critica rimase spiazzata, ci vedeva come dei non meglio precisati “punkettoni”, ma poi il movimento del nuovo rock elettronico che stava prendendo piede contribuì a chiarire le idee a molti. “ebbe a dire del periodo di Tango, il futuro tastierista del gruppo fiorentino guidato da Pelù e Renzulli. Mentre quasi dieci anni prima di Desaparecido (1985), in una forma di proto punk, lo stesso Edoardo Bennato fu accostato al fenomeno nascente. L’influenza del punk sui tentativi italiani di non essere folk, cantautorali o leggeri si coglie nella dichiarazione rilasciata da Vasco Rossi a Pop Corn nel 1982 per Vado al massimo circa le influenze che ne determinavano certe traiettorie musicali “…No… non direi Bob Marley… non mi ha mai sconvolto. Non è che mi piaccia quel reggae. I Police mi hanno sconvolto. Loro, sì.  Il reggae bianco, quello più rock mischiato col punk…”.



Negli anni’90 si attestano stabilmente una letteratura e un cinema punk (cyber) ma a parte la parentesi Prozac+ che sbancano con Acido Acida (1998) e prima di loro, i Punkreas e Bluvertigo che ricamavano tra il monumentale corpus musicale per punk costituito dai  David Bowie, Roxy Music e Lou Reed, e il post degli Ultravox e Duran Duran, il fenomeno sul fronte musicale pare essersi esaurito, uscito di scena per poi essere resuscitato a chiacchiere ogni volta che qualcuno o qualcosa ha tentato di mostrare un carattere fuori schema, trasgressivo, dissacrante. Per dire, a un certo punto si parlò del Grunge e dei Nirvana come eredi del punk e cosa peggiore assai, lo si disse pure della techno.


Bluvertigo

In Italia le cose procedono per etichette, Sono stato punk prima di te, cantava non a caso Enrico Ruggieri come sberleffo ai sedicenti eredi. E ha ragione, il suo Punk del 1977 è ancora oggi incredibilmente attuale. Cattivo e attuale. Riascoltate per credere Il Leader e Col dito, col dito


La Sad

Dopo il cyber è la volta del retrofuturo con prefisso - steam (invenzione lodevole) in grado di attrarre autori dalla potenza immaginifica come Hayao Miyazaki (Il castello errante di Howl), Alan Moore (La Lega degli uomini straordinari), Alfredo Castelli, (Docteur Mystere) a cui si aggiungono a buon diritto Dario Tonani con la saga di Mondo 9 (va detto che lui non ci si riconosce) e Alessio Brugnoli con i suoi racconti e romanzi incentrati sulle avventure del principe Andrea Conti (presente anche in Operazione Europa vol.2) e poi di altre etichette via via sempre più forzate, come il Solar Punk (!) con la sua utopia annacquata all’acqua di rose da buonismi da ventunesimo secolo. Mentre i vecchi ma coriacei punk si ripropongono, tipo Idol+Jones nei Generation Sex, in Italia vengono imposti fenomeni parodistici come Achille Lauro, La Sad e Bnkr 44 che a dispetto dell’assenza di testi, storia, rabbia e chitarre, vengono con assoluta spudoratezza venduti come punk(!) perché sfoggiano piercing e punte biondo ossigenate. Considerando che in loro è assente anche la più pallida parvenza di un talento in qualche modo certificabile e che a parte urlare “siamo punk!” dandosi il cinque (ma lo avete mai visto fare da un punk?), perché i discografici si affannano nel far affibbiare questa etichetta? Perché fa vendere.  I succitati non hanno nulla di autolesionistico, non esibiscono atteggiamenti iconoclastici, non fanno male a nessuno se non alle orecchie e non offendono nessuno se non il buon gusto, sono docili scatole vuote da riempire di bugie per trenta denari.


Questo primo quarto di ventunesimo secolo ha visto prevalere il pensiero massificato che è la declinazione del pensiero mondialista. Se massificazione e mondialismo equivalgono ad omologarsi, chi è “contro il sistema”, ci ripensa e volta pagina. Fragorosamente e coerentemente…è il caso di John Lydon, più noto alle masse con il suo nome d’arte Johnny Rotten nonché come leader dei Sex Pistols. A suo tempo non solo dichiarò di essere d’accordo con la Brexit ma da neo residente negli USA prese parte alla campagna elettorale per le presidenziali, sostenendo apertamente Donald Trump: “«Sostengo Trump per le sue scelte economiche di fronte a Biden. Che considero un incapace»”. Non stupì di meno Morrissey (attualmente sotto controllo medico per sfinimento e in guerra con la stampa inglese che sembrerebbe stia tentando di cancellarlo dalla storia degli Smiths ridimensionatone il ruolo) quando manifestò pubblicamente le sue simpatie nei confronti del British National Party.



Insomma, tra slogan fluidi e gimme five, la sottocultura più antagonista del rock diventa un pretesto per fare passarella a Sanremo. O forse, no.  Forse il punk è una fenice che ritorna. Sennò come inquadrare l’ossessione mai sopita per i CCCP?  Proposti alle nuove leve dai Maneskin, sono sempre al centro dell’immaginario, culturale, sociale e del rock alternativo. Tant’è che Felicitazioni, la mostra in esposizione fino a marzo a Reggio Emilia presso i Chiostri di San Pietro si è rivelata un evento eccezionale che ha richiamato tanto i nostalgici quanto le ultime generazioni. In realtà questa mostra sembra una tappa di un progetto più vasto e ambizioso che prevede l’imminente uscita di Altro che album nuovo, che contiene tre brani inediti più un’autentica reliquia, la registrazione del primo live del 1983. Zamboni è un po’ rigido e fuori tempo ma i prodomi della band che sarà si percepiscono in pieno. Ma non può mancare la loro dimensione naturale e quindi i CCCP nella formazione originale e al completo con Annarella Giudici e Danilo Fatur si lanceranno in un tour lungo l’Italia. Sappiamo che Amandoti ha resistito mirabilmente alla prova del tempo, ma Emilia Paranoica ha ancora la sua carica in grado di parlare ai nativi digitali? E il nichilismo di Io sto bene è ancora possibile o è superato dalla globalizzazione? Con ogni probabilità, quei brani che funzionarono talmente bene (potere del punk) dal mettere d’accordo i giovani di sinistra e destra, hanno ancora molte cartucce da sparare (speriamo non quelle di Jurij) ma il tutto fa pensare che è difficile parlare di rinascita del punk quando il meglio è chiaramente alle nostre spalle o quanto meno, occorre il passato per dare nuovo impulso al futuro.


Il ritorno dei CCCP

È giusto e sensato porre sulle loro spalle di ultrasessantenni il rilancio di un’estetica che oggi viene contaminata coi fenomeni circensi visti a Sanremo?  A questo aggiungiamo un retropensiero, i CCCP di quaranta anni fa avrebbero accettato Daria Bignardi e Andrea Scanzi come maestri di cerimonia? Quelli di oggi, a quanto pare sì ma il pubblico la pensa diversamente come attesta il concerto di Berlino dal 25 scorso. La band si è esibita sul palco dell’Astra Kulturhaus, nella città dove tutto era iniziato, nel 1981. Il pubblico ‘fedele alla linea’ ha dimostrato fin da subito che chimica e alchimia non si sono mai interrotte, del resto, quello dei CCCP uno spettacolo senza tempo. Praticamente tutta la sala ha cantato Curami, con Annarella avvolta da una bandiera italiana. Ma l’incantesimo si è interrotto quando è apparso Andrea Scanzi, accolto e poi investito da veementi bordate di fischi e insulti.

Al netto di talune cadute di stile e incoerenze, l’unica certezza che abbiamo è che esclusa quella magnifica eccezione che sono i CCCP al cui concerto chi scrive si fionderà senza indugi, il punk rock è morto, evitiamo l’accanimento terapeutico a scopo utilitaristico, lasciamolo riposare caoticamente in pace.


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