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John Wick 4: Estetica superiore, carnalità e rapporti di sangue. Action da dieci e lode

Aggiornamento: 9 ago 2023

Qualcuno percuote ripetutamente un makiwara. Ne vediamo solo le braccia. Scarica potenti  oi tsuki di sinistro mentre sentiamo declamare Dante. “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".

Il cantore è Bowery King (Lowrence Fishbune), l’uomo che sta tirando i pugni è John Wick.

L’omaggio a Dante non è solo un modo eccellente per introdurci, anche visivamente, lui lo declama mentre attraversa i sotterranei di cui è monarca, ma è la chiave di volta per interpretare questo quarto capitolo del sicario definitivo. L’Uomo Nero-Baba Jaga. Fa impressione constatare che per darsi un tono, negli USA ricorrano regolarmente alla sua statura e complessità, mentre a queste latitudini ci s’impantanain insulse discussioni su quanto sia maschilista Dante, sia o meno antisemita (il che è di un grossolano oltre l’immaginazione), omofobo e tutto il corollario di nuove superstizioni urbane.

Fatto sta che John Wick riconcilia. Ricollega l’action sui piani a cui deve ambire, restituisce il mistero e la magia al cinema d’avventura, vara una cifra estetica come non si vedeva da decenni. Soprattutto, fa dimenticare il passo falso sul piano della forma, delterzo atto, così colmo di trovate dozzinali, non da ultimo, i gargarismi di Halle Berry.

John Wick 4 è un film diviso in due. La prima parte è senza trama. Il mezzo è il messaggio. Pura estetica del combattimento. Pura estetica della forma. Luci, scenografie, regia, costumi sono tirati a lucido come non mai. Dal suo arrivo in Giappone assistiamo a un film all’interno di un altro. La furia omicida, inarrestabile e travolgente del killer che aggiorna il suo campionario di armi sfoggiando un nunchaku, si combina con un registro poetico che è raro. John Wick è posto come una figura superumana, lo è sotto molteplici aspetti. Dal vestito sempre uguale a prescindere dalle circostanze, persino in un inseguimento a cavallo nel deserto, che lo collega all’estetica da fumetto (il vestito, non l’inseguimento), alla sua quasi assoluta incapacità di morire. Wick è raggiunto da una quantità di pallottole che annienterebbe una divisione di panzer, precipita per decine di metri sbattendo contro travi di cementoarmato, rotola lungo centinaia di gradini ma inesorabilmente sopravvive. È ammaccato come il muso di auto contro un muro, è investito da auto in corsa, sforacchiato come un colapasta, affettato con ogni genere di arma bianca, ma lui si rialza e ricomincia a fare ciò che gli viene meglio: mietere vite.John Wick è il fratello presentabile di Michael Myers, un’entità emersa dalle nebulose vastità della notte per seminare devastazione.

Lungo, forse troppo, e a volte anche ridondante, ma sostenuto da una colonna sonora impeccabile che ne detta il ritmo, questo quarto episodio è un’iniezione di   adrenalina. Se le scene d’azione sono da manuale, il che non sorprende dato che il regista è come di consueto, Chad Stahelski (strano caso il suo, di regista monotema, alla George Miller), non meno curati sono i dialoghi. Se ne I Quattro dell’oca selvaggia era trattata la morale tra i mercenari, in John Wick prende forma la fratellanza tra assassini. Fondata sul rispetto tra simili, la fratellanza, l’amicizia incondizionata spinge ogni personaggio oltre i confini segnati dalla Gran Tavola. Le regole da un lato, ciòche sei dall’altro. Ecco che in una linea filologica, quel makiwara iniziale fa da preludio al corpo centrale del film, le sequenze in Giappone valgono da sole il prezzo del biglietto ma sono persino meno rilevanti rispetto alla maestosità degli interpreti. John Wick si permette il lusso di mettere insieme due delle star asiatiche più rappresentative dell’attuale panorama cinematografico: Hiroyuki Sanada e Donnie Yen ed è un peccato che non vi sia una sola scena coi tre killer insieme. Yen apre la corposa pagina del postmoderno citazionisya, egli stesso è un autoriferimento al ruolo in Rouge One a sua volta debitore di Furia Cieca, così come il Wick ammanettato è una citazione da Guerre Stellari, mentre la battuta “Io sono Klauss” non può che venire da “Io sono Groot”.  La sceneggiatura guarda in casa propria per caratterizzare la relazione: cane e padrone che si aggiorna passando da Wick a  Sofia (Parabellum), a Shamier Anderson, new entry nel cast sfarzoso e illimitato che annovera anche Scott Adkins.  

L’apoteosi citazionista è concentrata nella sequenza finale rubata senza imbarazzi ai Guerrieri della notte. Si parte con la bocca della speacker, sensualmente in primo piano, ingolosita dal microfono, che scandisce il tempo che passa e le fasi della caccia all’uomo. Il “furto” non va biasimato. Ogni film “notturno” si rifà in qualche modo al cult movie di Walter Hill, qui è solo più esplicito il rimando.

Ma questo Wick alla quarta si collega al primo anche per la coordinata materialismo e carnalità. Onore e rapporti di sangue che scorre a fiumi. Tutto ha un prezzo, una vita per un’altra. Occhio per occhio, dente per dente. I padri proteggono le figlie, esse stesse guerriere splendide e feroci anche senza avere, concettualmente, un membro tra le cosce. Laddove ogni elemento si avviti sulla dualità yin e yang che stanno per grazia e brutalità, appare emblematicamente evidente la perfezione deipersonaggi femminili (in particolare Rina Sawayama)in linea col resto delle caratterizzazioni, tra le quali spicca un ritrovato Clancy Brown. Uno che se si tratta di spade non può essere mai escluso e che avrebbe meritato una carriera più vistosa ma che sta invecchiando bene. Menzione d’onore per Winston-Ian McShane, impeccabile eminenza grigia di un’organizzazione feudale dal rigore monacale in cui tutto è ordine e gerarchia. Un mondo stratificato e sotterraneo. Celato a piena vista sotto gli occhi di tutti eppure invisibile. Rappresentato da magnifici e centralissimi alberghi che sono al tempo stesso, zone franche, castelli, cattedrali e sedi diplomatiche. Da un punto di vista geopolitico, Wick non guarda in faccia a nessuno, non strizza l’occhio alla Cina e Corea, nuove frontiere del cinema action dai forzieri inesauribili ma non è clemente con l’Europa, dove evidentemente nascono solo mele marce come confermerebbe il vile e obliquo Marchese de Gramont(Bill  Skarsgård) che segue lo Scamarcio del secondo capitolo. E Keanu Reeves-John Wick? Forse è dipartito, forse no. Ma la certezza incontrovertibile è che l’uno è l’estensione dell’altro. Non c’è spazio per spin off, Wick, con tutto il suo carico emotivo, incapace di scegliere tra vita e morte, eppure così aggrappato a entrambe, reietto  portatore di sventure e nonostante ciò,  in molti sono pronti a morire per lui,  si ferma dove si ferma Reeves.

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