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Pier Luigi Manieri

Post elezioni e post sulle elezioni

Aggiornamento: 9 ott

Leggiamo numerose analisi del voto circa i perché della caduta del PD e della Lega e la vittoria di FdI. Alcune, riguardanti i due grandi sconfitti sono plausibili, inquadrano le ragioni delle rispettive performance nell’aver dato vita al governo Draghi dopo che Renzi aveva staccato la spina a Conte. È una riflessione pertinente (ancorché non esauriente), si fosse andati alle elezioni 18 mesi fa, lo avremmo fatto con uno scenario interno ed esterno differente.


La crisi energetica era oltre l’orizzonte come pure il conflitto con l’Ucraina, ma chi se ne sarebbe avvantaggiato? La Lega era cresciuta ancora durante il primo governo Conte grazie alle politiche in materia di sicurezza, migranti e sociali (Quota 100) ma dopo l’uscita di scena per la sparata del Papete ha progressivamente dissipato il bottino. Da lì in poi ha continuato a calare fino ai 18 mesi con Draghi che l’hanno compromessa senza appello. La Lega ha di fatto compiuto una parabola. Dal 3% del 2015 al 17% del 2018 ora nuovamente sotto il 10.


E veniamo al PD. All’inizio di questa analisi abbiamo collegato la principale responsabilità all’esperienza Draghi il che è una parte del problema ma non il problema. Se ci si ferma a questo elemento si perde di vista il dato generale. Il PD non vince un’elezione dal 2006 e segnò quell’ultima vittoria alla Camera con appena 25000 voti in più della coalizione di centrodestra. Se si pensa che tolti i 18 mesi M5S- Lega e i 3 anni di Berlusconi (2008-2011) ha sempre guidato il Paese è surreale. In sostanza, si celebrano le elezioni e poi governa il PD.

Il problema del PD non è la contingente affermazione dei pentastellati o la voglia di destra che periodicamente si riaccende, il problema cronico è nella fusione di due forze antitetiche come DC e PC. Una fusione che dopo 30 anni spesi a piantare ulivi e raccogliere margherite fa acqua da tutte le parti. Entrambi i partiti hanno perso di vista il loro elettorato. Il voto cattolico è evaporato e l’operaio è stato abbandonato a sé stesso. Il 18% di quest’anno è solo di un punto più basso del consenso del 2018. Un punto, sintomo del fatto che la crisi c’è e non da oggi, come abbiamo visto, l’ultima vittoria fu di Pirro, col Senato addirittura in minoranza.

Per uno che perde c’è giocoforza uno che vince. La crescita di FdI è solo apparentemente improvvisa. Quei 22 punti in nemmeno 5 anni sono certamente clamorosi ma sono tutto meno che casuali. Giorgia Meloni non ha sbagliato una mossa a cominciare da Giovanbattista Fazzolari, uomo di strategia e tattica, discreto, abile, lucido e puntuale, Giovanni Donzelli e Francesco Lollobrigida, per non dire di Fabio Rampelli che ha sbancato contro Rossella Muroni del PD ed ex presidente di legambiente.

Meloni ha tenuto la barra a dritta sui punti cardinali: immigrazione, difesa del made in Italy, temi etici, rincaro bollette, rapporti con UE e NATO. In realtà, intorno a lei è cresciuta una classe dirigente di alto profilo, Andrea De Priamo, Marco Scurria, Lavinia Mennuni, Federico Mollicone, sono solo alcun i degli ex gabbiani che si sono fatti le ossa misurandosi con municipi, Comuni, Regione, Unione Europea (in rampa di lancio per la presidenza della Regione c’è Fabrizio Ghera). Inoltre e se questo dato non viene inquadrato la sconfitta è matematica, FdI, assieme a una coalizione saldissima, governa 15 regioni su 20! Il che è di per sé un elemento da cui partire. Le vittorie che reggono alla prova del tempo si costruiscono, non s’improvvisano. E qui veniamo al M5S. Leggo riflessioni di addetti stampa pentastellati che parlano apertamente di trionfo. Li comprendiamo, non possono sostenere nulla di diverso. E li comprendiamo doppiamente, la paura deve essere stata cosmica, come il pessimismo dopo i crolli verticali in serie. La verità è che Conte che assieme a Di Maio era riuscito nell’impresa di dissipare un patrimonio a colpi di errori più simili a orrori (uno per tutti, allearsi col PD), solo all’ultimo ma decisivo minuto le ha indovinate tutte. La spallata a Draghi seppur con retromarcia finale e la presa sul Reddito di cittadinanza difeso con le unghie e i denti lo hanno riportato in quota. Vittoria o sconfitta? Dipende dalle angolazioni: se passi dal 30 al 15% la sconfitta è epocale, se sei precipitato al 4 e chiudi al 15% hai portato a casa la pelle e anche qualcosa di più.


E l’ex sindaco d’Italia? Renzi è imperturbabile. Indipendentemente dai vari cambi di governo avrebbe ottenuto più o meno lo stesso risultato. Il consenso alla recente elezione corrisponde praticamente alla somma di Italia Viva con i voti ottenuti da Calenda alle comunali. In sostanza si sono uniti per garantirsi il tetto del 3%.

“È a rischio la Costituzione”, assieme a “fascisti!” è stato lo slogan inefficace si una campagna elettorale feroce nei toni che non ha lesinato insulti e minacce (la Signora Von der Leyen non ha fatto mancare la sua) ma sciatta e misera di contenuti. Enrico Letta da ex democristiano avrebbe dovuto improntarla sulla persuasione e invece ancorché privo del physique du role adeguato, si è giocato la carta muscolare: gli sfigatissimi “occhi di tigre”! Un’elezione persa tanto per una guida dissennata del Paese quanto per una dialettica avvilente impostata su un aggettivo/sostantivo, non è bastata. Ancora oggi ripetuti come mantra demenziali, deflagrano i “fascisti “. Autocritica questa sconosciuta, ma è anche vero che sarebbe risultata non credibile qualsiasi cosa che non cominciasse con un “scusateci non ci abbiamo capito un cazzo manco stavolta! Se ci date ancora una possibilità e sarebbe la trentesima, noi giuriamo sulla testa di Renzi che faremo...”.

La Costituzione non teme nulla. Se un nome ha ancora senso, Fratelli d’Italia può essere retrò quanto volete ma chiarisce il posizionamento etico e intellettuale del partito che da settantadue. ore è il vincitore delle elezioni.


Una chiosa su Italexit.

Paragone ha avuto coraggio. Ma ha avuto solo quello. Troppe le forze antisistema perché ci fosse un bacino d’utenza per tutte. Troppe e inconciliabili le distanze tra Adinolfi, Chiaraluce, Fusaro e Rizzo (ma un'alleanza tra un vetero comunista che ne farebbe spezzatino e l'estrema destra è verosimile?) per un’alleanza volta a scavallare lo sbarramento, ma al netto di ciò, erano sbagliati i presupposti. Scambiare i temi d’attualità per quanto drammatici per categorie di pensiero è da dilettanti. Non proporre una visione della società ma solo un elenco di contingenze (vaccino, NATO, UE) è un modo semplificato e didascalico di porsi di fronte alle grandi questioni: lavoro, sicurezza, sanità, mercati internazionali, sovranità, cultura. Paragone si è lamentato dell’astensionismo. L’astensionismo non è un’entità astratta che si manifesta indipendentemente dagli eventi, se c’è stato si domandi dove ha sbagliato. In quale snodo il suo programma non ha intercettato il consenso degli indecisi.

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