Alla festa della Rivoluzione: la suggestiva ricostruzione dell’avventura di Gabriele D’Annunzio a Fiume, tra intrigo, amore e tanta action
- Pier Luigi Manieri

- 2 giorni fa
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1919: la Prima Guerra Mondiale è appena terminata, portandosi dietro il suo carico di gloria, di morti, di reduci e di rivendicazioni. Parallelamente il Fascismo di Mussolini, è inesorabilmente alle porte, sulla spinta delle sue urgenze e ambizioni. In questo scenario sospeso tra storia fatta e da scrivere, si impone l’utopia di Fiume, la città-stato di del comandante Gabriele D’Annunzio che il 12 settembre 1919 sbarca insieme a 2500 Arditi e Legionari, occupandola e istituendo la Reggenza italiana del Carnaro.

Poeta, condottiero, intellettuale, esteta, aviatore, uomo dalle visioni audaci, D’Annunzio vuole fare della citadella istriana, un modello per tutte le nazioni. In questo scenario di grande fermento futurista, la città diventa il centro del mondo: diplomatici, politici, investitori, finanzieri, avventurieri in cerca di fortuna piovono da ogni angolo del pianeta, circolano tra le strade, si ritrovano nei salotti intenti a tessere strategie su ampia scala e trame di palazzo ma non sono gli unici a intravedere una possibilità nel Vate: spie di ogni potenza del pianeta si mescolano tra gli artisti, le prostitute, i mediatori, i faccendieri, i militari, ciascuno col suo recondito scopo e quando la festa d’insediamento è funestata da un attentato che pone in pericolo la vita del Poeta-Guerriero, si mettono in moto una sequenza di azioni che intrecceranno fatalmente i destini di un manipolo di personaggi: Sono Beatrice (Valentina Romani), un’addestratissima spia al servizio della Russia e Giulio (Nicolas Maupas), un giovane medico, disertore a Caporetto, col cuore lacerato da una ferita profonda, entrambi a caccia di Sara (Susanna Acchiardi), una specie di ninja che si rivelerà essere la moglie di Giulio, creduta morta e Dimitri Pavlov, interpretato da Darko Peric.

Sospeso tra ucronia e accurata ricostruzione storica, l’opera ispirata dall’omonimo saggio di Claudia Salaris, diretta da Arnaldo Catinari, noto per essere tra i nostri migliori direttori della fotografia, nonché scritta a quattro mani con Silvio Muccino (fatto che ha suscitato una certa curiosità), pone di fronte allo spettatore un carismatico Gabriele D’Annunzio, uomo di lotta, arte e di governo, teorico di una visione suggestiva della società delle nazioni, e qui particolare merito va dato a Maurizio Lombardi che ci restituisce un peso massimo della nostra cultura, finalmente vero e credibile. Un ritratto autentico, nel dare luce al genio visionario del più grande poeta e intellettuale del’900 ma senza perdersi nell’autocompiacimento e nella frivolezza della caricatura.

A onor del vero, tutto il cast funziona: Valentina Romani è una delle sorprese, se va avanti così, sarà assieme a Celeste Dalla Porta, la diva del nostro cinema per il prossimo decennio; ottimo anche Maupas. dà vita a un personaggio complesso, un eroe romantico, sospeso tra il potere di preservare la vita e la facoltà di toglierla. Ma se c’è uno che merita una menzione speciale è senza dubbio Riccardo Scamarcio. Finalmente emancipato dallo scomodo impianto del bello a ogni costo, l’attore pugliese presta volto, postura e gesti per dare forma al perfetto antagonista da romanzo d: un cospiratore che trama nell’ombra. Un personaggio, ambiguo e doppiogiochista apparentemente glaciale ma attraversato da tormenti mai sopiti. Pietro, il suo personaggio è la missione-ossessione di Beatrice, così come D’Annunzio lo è per Sara.

Questi incroci, più fatali che pericolosi, sono l’architrave di un film che è molti film insieme; è una splendida storia d’amore, un film storico ben strutturato, una spy story incalzante, un revenge movie denso di azione e ottime coreografie. Se sembra troppo, è perché Alla festa della Rivoluzione ci pone di fronte a un vuoto che anno dopo anno ha assunto il perimetro e profondità di una voragine, vale a dire, il vuoto generato dall’assenza di quel cinema che tenta un dialogo col pubblico lungo la coordinata dell’intrattenimento, in questo senso, gli splendidi stunt dei corpo a corpo che vedono impegnate le due eroine del film, sembrano quasi una provocazione, una chiamata ai registi, sceneggiatori e produttori: “anche noi possiamo farli!” che va a sommarsi a La Città perduta, auspicando che la formula “eroina che mena” non diventi il nuovo cliché. Il film pare darsi come obiettivo quello di colmare quell’assenza e lo fa con vemente convinzione. A rischio di cercare il pelo nell’uovo, va detto che l’opera non è esente da imperfezioni: alcuni dialoghi risultano didascalici, privi di sottotesto e spessore emotivo mentre fa parimenti storcere un pochino il naso, l'uso disinvolto e anacronistico di alcune espressioni quali "non esiste" e avverbi come "assolutamente" che nell’accezione positiva e negativa appartengono alla contemporaneità (sono entrati nel linguaggio con le serie tv inglesi e americane), è perciò piuttosto improbabile che 100 anni fa fossero nel linguaggio corrente. Spaccando il capello in quattro, l’insistente strizzata d’occhio a certe tendenze vicine al girl power rischia di farne, in futuro, un’opera datata, per quanto vada tenuto conto che il film, almeno nel caso di Beatrice, spiega con chiarezza che sia stata addestrata fin dall’infanzia. E se le donne picchiano come fabbri, desta perplessità il modo in cui vengono rappresentati gli Arditi, che in ogni scena fanno la figura degli improvvisati.

Dediti ai vizi senza freni (un po’ troppa cocaina sui vassoi per essere il 1919), vengono sistematicamente e sonoramente presi a ceffoni da chiunque, mentre nella realtà affrontare un Ardito era sovente l'ultima esperienza in vita. Eccezionalmente efficienti nel corpo a corpo e straordinariamente abili e coraggiosi, gli Arditi sono stati di fatto gli antesignani dei corpi d'elite, e azzardiamo, in un contesto cinematografico narrativamente vasto e plurale, non sarebbe male raccontarne le gesta, anche solo come alternativa ai film e serie tv sui SAS, Navy Seals, Berretti Verdi, Delta Force, 707esimo Battaglione Missioni Speciali e via dicendo.
Ma non cavilliamo perché al netto di questi appunti, il film funziona in ogni singolo aspetto: orchestrato su un manipolo di personaggi carichi di fascino, al rigore della ricostruzione storica in cui si inseriscono De Ambris, l'aviatore Guido Keller e il rivoluzionario russo Michail Bakunin, si combina un impianto narrativo capace di mescolare i colpi di scena con momenti più introspettivi. Il fascino è altro lodevole spunto inedito. Il film è un’ode alla bellezza; sia essa formale che sostanziale. Se il cast è complessivamente di un’avvenenza mirabile, le ricostruzioni, tanto nei costumi che negli ambienti, valgono da sole il costo biglietto. La regia si muove con eleganza tra i vicoli, le scale e le residenze che sembrano labirinti in cui individuare l’uscita (la verità), può decretare la differenza tra la vita e la morte.
Il film, fortemente voluto da Federica Lucisano e prodotto dalla IIF, nel suo essere coraggiosamente una brillante sintesi di generi, merita un giudizio critico più che lusinghiero, se sarà o meno un successo lo scopriremo dal 16 aprile 2026, quando lo vedremo nelle sale ma i cinque minuti di applausi scroscianti a conclusione della proiezione alla Festa del Cinema, lasciano presagire qualcosa di decisamente buono.




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