Ballerina: spin off bello ma non balla
- Pier Luigi Manieri

- 29 giu
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 30 giu
Non danza bene, Eve, è più portata per un altro genere di arte, quella dell’assassinio. Il propellente per tanta ferrea determinazione è la morte del padre, eliminato dal nonno per aver infranto il codice di fedeltà alla millenaria setta di sicari di cui è il cancelliere.

Lo spin off del più letale dei killer si apre con una delle migliori sequenze d’azione del decennio: emersi da una notte di morte, una unità di incursori sommozzatori attaccano un atollo. È un attimo e su questo spicchio di paradiso terrestre divampano le fiamme dell’inferno, mentre nel vano tentativo di sottrarla a un destino già scritto, un padre protegge amorevolmente la figlia fino allo sfinimento. Ma il destino, come vedremo si compie ugualmente.
Stacco. La bimba è in custodia presso una stazione di polizia ed è qui che entra in scena Winston che la individua e l’affida alla Ruska Roma. Da questo punto in poi il fato tesse la sua tela perché come viene ripetuto spesso nel corso del film: tutto dipende da lui.

Ballerina è tutto e nulla. È tutto perché lei, Ana De Arma riempie la scena con un solo sguardo dei suoi occhi liquidi e penetranti ma per il resto siamo di fronte al più classico degli spin off, certamente suntuoso sul piano formale ma senza infamia e senza lode sul fronte drammaturgico, ingolfato tra asfittici cliché di vendetta e incastri forzati nella trama generale (John Wick).
L’incastro che stona…
E come entra John Wick nella tessitura? Col solito inserimento postumo. Ricordate che nel terzo capitolo, consuma il “biglietto” per il Marocco? Ebbene, lei, ancora recluta, lo vede e lo ferma per capire. L’Uomo “che mandi per uccidere il fottuto Uomo Nero”, le suggerisce di abbandonare quella strada ma Eve non lo ascolta. Si ritroveranno come avversari un mese dopo. Giorno più, giorno meno. Ed ecco che prende forma l’asincronia o se si preferisce, l’incongruenza. Questo evento avviene tra il terzo e il quarto capitolo dell’eroe nero, ma come può accadere se lui nello stesso lasso di tempo, attraversa il Marocco, precipita dal balcone del Continental, si rimette in sesto, vola in Giappone e poi rimbalzando come una pallina lungo la scalinata del Sacre Coeur, si batte a duello finché non viene fatto fuori da Kane? Forse. O forse no. Lo scopriremo più avanti. Noi lo lasciamo col malinconico saluto di Winston “arrivederci figlio mio” ma lo ritroviamo su un treno notturno che sa di frontiera western tra le nevi delle montagne austriache. Saremo spietati e puntigliosi ma appare chiaro come prenda forma un grossolano errore di tempistica, perché lui in nessun modo può essere fisicamente lì, dato che il tutto avviene inspiegabilmente prima dei fatti di Parigi, tant’è che Charon è ancora vivo…
E Tutto ciò al netto del fatto che nel terzo film la Madre o Direttrice (una Anjelica Huston imbottita di botox) viene severamente punita per averlo aiutato e anche se nel quarto sarà reintegrato nella Ruska Roma affinché possa sfidare il marchese di Gramont, appare difficilmente credibile un suo impiego come se nulla fosse
Le citazioni e quel certo postmodernismo di maniera:
Guardi le prime sequenze e una sensazione di familiarità affiora un poco alla volta. La difficoltà a inquadrarsi e ad apprendere i rudimenti del mestiere, il duro allenamento, la sensazione che sia tutto un fatto di asettico efficientismo, scena dopo scena a Eve si sovrappone Nikita, il capolavoro di Luc Besson. Peccato che di tale estetica del sicario rimanga solo una piatta emulazione. Zero fascino, zero capacità di trasferirne allo spettatore la dimensione introspettiva. Nikita è una bomba a orologeria. Eve è solo un’assassina a cui una istruttrice di colore inserita in una inaccessibile comunità di criminali slavi, dice di “combattere da donna” per compensare il divario fisico. La cosa avrebbe potuto essere foriera di sviluppi interessanti sui fronti dell’astuzia, elusione, inganno, manovre evasive, armi celate addosso, si pensi alle donne ninja che nascondevano stiletti nei capelli come fermagli, qualcosa che la portasse a strategie d’ingaggio più sofisticate, come appunto Nikita che ricorre a travestimenti ed evita il corpo a corpo a stretto contatto ma quel suggerimento rimane solo sulla carta perché come si vede nello snodo narrativo, il film rimane su percorsi già abbondantemente battuti, lastricati da combattimenti coreograficamente impeccabili ma che non lasciano il segno, in sostanza si degrada dall’intrigo di Nikita alle botte di una Atomica Bomba qualsiasi. Fatto fuori il pathos concettuale, rimane il citazionismo da fan, e quindi nel ripescaggio delle scene più iconiche, la vediamo rannicchiarsi dietro la credenza della cucina di un ristorante mentre un gran numero di avversari le scaricano addosso una pioggia di proiettili. Volendo cercare altri rimandi, come non cogliere nella presenza di Gabriel Byrne, un vezzoso omaggio alla versione statunitense di Bob, il supervisore e amore impossibile di Nikita, nel remake Nome in codice Nina?
Sospensione della credulità
Estendendone il significato: nessuno al mondo sa dove si trovi la cittadella quartier generale della Setta, nessuno tranne l’armaiolo Frank che per una combinazione che ha del miracoloso, è distaccato proprio a Vienna. L’armaiolo Frank, il quale è di colore pure lui tanto per passare inosservato nella equatoriale capitale austriaca, è dunque l’unico a saperlo. Cioè, lui sa dove si trovano i temibilissimi competitor della Ruska Roma, organizzazione di cui è dipendente ma se lo tiene per sé finché non decide di condividere il suo segreto con Eve. Nemmeno la Madre o Direttrice ne è a conoscenza, tant’è che deve chiederne l’indirizzo al Cancelliere come si fa quando si va a trovare qualcuno che si conosce appena. Ma siamo poi sicuri che siano temibilissimi? Eve li abbatte con irrisoria facilità, tanto che viene da chiedersi come siano riusciti a conservare il loro potere per mille anni. Non solo, Eve arriva nel centro di Hallstatt, nel cuore dell’Austria in auto. Entra nel villaggio, ne percorre la stradina principale, senza che ci sia alcun sistema d’allarme. Nemmeno lo straccio di un posto di guardia mimetizzato in qualche modo. Una roccaforte sguarnita, eccetto per un tizio col turbante che fa la vedetta aggrappato a un campanaccio.
Conclusioni
Insomma, Ballerina non è più né meno di una costola di lusso in cui le occasioni mancate sono superiori a quelle colte. Basti pensare che quell’interessantissima idea della Kikimora, la protettrice rimane colpevolmente nel bozzolo per lasciare spazio a un apatico revenge movie dalla trama scontatissima incapace, a causa della sua scrittura “facile”, di creare empatia col pubblico. Un film che ha il suo asse d’equilibrio su un personaggio bidimensionale che non esprime nulla, il che stupisce particolarmente considerando che Len Wiseman, si pensi a Unferworld, è uno specialista nel caratterizzare compiutamente i personaggi femminili. E invece, come nella nuova tradizione del cinema danna-muscolare statunitense, l’eroina non ha struttura cerebrale, non esprime sentimenti, non s’innamora. È algida come un ghiacciolo, se non vagamente saffica (“sa danzare…”), non formula pensieri personali, insomma seppure epigone, non ha nulla di Nikita ma nemmeno di John Wick. Non ne coglie le sfaccettature, non ne esalta quel tono da creatura emersa da incubo; inarrestabile e gelidamente furiosa.

Quel “non destare il can che dorme” che è traccia e sottotesto del sicario definitivo, qui è solo una copia. Non bastasse, il film è uno scarno campionario di idee buone ma mal realizzate. Per dire, bella l’idea della porta blindata come riparo, peccato che quando attraversa il buco nella parete generato dall’esplosione della granata, non vi sia traccia del corpo del nemico schiantato dalla detonazione. Questo nemmeno in certi z-movie prodotti a queste latitudini…
Di fatto, tramontata la moda dei remale e con lo spin off in auge come non mai, Ballerina è il punto d’incontro tra le due estetiche al ribasso. In attesa di capire se raggiungerà i fatidici 220 milioni di dollari utili per farne un buon affare, una nota di merito le va riconosciuta: nella trama non c’è nemmeno l’ombra di patriarcato. I padri sono restituiti al loro ruolo di protettori dei figli, fino alla morte. Di questi tempi non è poco.










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