Se è vero che ogni generazione ha i suoi eroi, i suoi simboli, i suoi riferimenti culturali, quella a cavallo tra gli anni 60 e 70 li sta perdendo velocemente tutti. È come se si fosse aperta una falla da cui sfuggono uno dopo l’altro, tutti i personaggi che ci hanno accompagnato nel corso della vita, quelli scelti e quelli che semplicemente c’erano e sono entrati comunque nei nostri percorsi. Se sei vissuto in questo tempo prima o poi finirai per citare una battuta di Gigi Proietti e puoi non essere interessato alla danza, ma Carla Fracci… puoi non amare i varietà televisivi, ma Raffaella Carrà… puoi non amare la musica (davvero?!) ma Battiato… e Charlie Watts… o l’altro batterista di casa nostra. Stefano D’Orazio e anche se non te ne frega nulla delle colonne sonore cinematografiche il Maestro Morricone ha fatto comunque parte della tua vita, un film con Jean Paul Belmondo non puoi non averlo visto, così come non puoi non aver visto, se non un film, almeno uno sceneggiato tv con Nino Castelnuovo. E, sempre rimanendo in ambito artistico, chi ha visto giocare Diego Armando Maradona non lo dimentica, anche se non si interessa di calcio.
Ti accorgi di quanto il tempo sia spietato e inesorabile quando ti rendi conto che tutti quei nomi, che in fondo sono pezzetti della tua vita, scompaiono uno a uno. La sensazione è un po’ quella di una festa finita, col mondo che ti si smonta intorno così come si smonta il palco alla fine di uno spettacolo o di un concerto. Ci sono persone che non c’è bisogno di conoscere personalmente o di frequentare per sentirle amiche, per avere con loro una confidenza immaginaria ma reale. Ne abbiamo perso di bella gente ultimamente e non è gente sostituibile. La più recente scomparsa di cui le cronache ci informano è quella di Nino Castelnuovo, morto ad 84 anni il 6 settembre. Ma lui, per il mestiere che faceva, ha avuto il privilegio di vivere molte vite dentro la sua, quelle dei personaggi che interpretava.
Personalmente ho vissuto qualche vita anche io, non tante, certo, ma in una di queste, diciamo la prima, Nino l’ho incrociato un paio di volte, sui set di un film e di uno sceneggiato televisivo, locuzione vetusta, dei tempi in cui in Italia si parlava ancora italiano, che per i meno giovani aveva lo stesso significato che ha oggi il termine Fiction. I tempi cambiano e così i linguaggi ma ci sono sempre cose che restano e che superano anche l’inevitabile prova della morte fisica. Le cose che rimangono di Nino Castelnuovo sono parecchie e tutte contrassegnate dal suo stile discreto ed efficace, dalla recitazione contenuta e credibile, di grande modernità. Non era una star, un divo, le pose erano quanto di più lontano dal suo carattere semplice e riservato ma ricco di sfumature utili al suo mestiere di interprete. Con lui, in quella mia prima vita da giovane attore terminata nei primi anni ottanta, ebbi alcune scene nel mio primo film “Andremo in città”, diretto da Nelo Risi. Era il 1966, ero un bimbetto vivace di anni 6 e mi trovai su quel set nei dintorni di Novisad, nell’allora Yugoslavia, al fianco di una giovane e fantastica Geraldine Chaplin, di cui interpretavo il fratellino cieco.
Nino invece nel film era il suo fidanzato, uno studente di ingegneria prestato alla lotta partigiana contro gli occupanti nazisti. Era una persona simpatica, dinamica, molto affettuoso e paziente con quella piccola peste che era il sottoscritto all’epoca. Capitò poi, quasi dieci anni dopo, di ritrovarci a recitare insieme in “Ritratto di donna velata”, sceneggiato Rai di cui Nino era il protagonista insieme a Daria Nicolodi e ancora una volta fu davvero facile lavorare con lui. Nino era molto professionale e la sua naturalezza nella recitazione era preziosa non solo per il regista ma anche per gli altri interpreti perché con lui le cose scorrevano lisce, semplici ed era facile sentirsi a proprio agio nel dialogo attoriale. Nino poi, era anche un “mezzo parente”, poiché quella che è stata la sua compagna per un quarto di secolo, Noris Fiorina, era una cugina di mia madre (e faceva uno strudel insuperabile). Ora che è morto ovviamente sono fioriti mille articoli e servizi ai Tg per ricordarlo, ma, tranne poche eccezioni, puntano tutti ai medesimi riferimenti. Il primo, manco a dirlo, è “I promessi sposi”, sceneggiato che gli diede la popolarità televisiva nel ruolo di Renzo, ma finì per ingabbiarlo, in un certo senso, in una sorta di “prigione catodica”. Per uno che veniva dalla Novelle Vague e che in Francia godeva di grande considerazione, il cinema d’autore poteva essere uno sbocco naturale, ma all’epoca vigeva un certo snobismo culturale verso la televisione e gli attori “seri”, importanti, non la frequentavano. Era considerata come una sorta di rifugio per attori falliti o comunque di seconda fascia. Uno sbocco commerciale e dunque anti-artistico, banale, povero, che il cinema d’autore certamente non amava.
L’altro, immancabile, è lo spot dell’olio Cuore, quello in cui saltava atleticamente una staccionata, che gli restò appiccicato addosso come una maledizione. Maledizione, sì, perché parliamo di un attore le cui capacità andavano ovviamente molto oltre quell’impegno collaterale al suo mestiere. Ma nell’immaginario collettivo è rimasto ”quello che saltava la staccionata”. Eppure parliamo di un attore uscito dalla scuola di Giorgio Stehler, che vanta un debutto cinematografico di tutto rispetto in “Un maledetto imbroglio” di Pietro Germi, del protagonista, con Catherine Deneuve, di una pellicola che sta nella Storia del cinema come “Les Parapluies de Cherbourg”, vincitore di Cannes ’64 e con 5 nomination all’Oscar, in cui mise in luce anche delle ottime capacità canore, di uno degli interpreti di “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti etc. etc. etc. Ne ha fatti di film comunque e su ogni fronte, compreso il western, come quel gioiello di genere che è Un esercito di cinque uomini, e non si contano gli sceneggiati, ma senza mai approdare al Grande Cinema, se non sporadicamente, in parte proprio a causa di quel “peccato originale” della scelta televisiva. Non un divo, dicevamo, il divismo non era nelle sue corde, ma un attore di qualità sul quale ogni regista sapeva di poter contare a occhi chiusi, e non è assolutamente poco. Nel succedersi sempre più rapido di notizie luttuose proposti dalle cronache recenti, ci domandiamo “chi sarà il prossimo?”.
Sappiamo che ci sarà ma non sappiamo chi. Forse quel cantante di cui possediamo così tanti dischi? O quell’attore tanto amato? O quell’attrice di cui siamo sempre stati un po’ innamorati? In ogni caso sono tutti personaggi un po’ più grandi di noi, gente che oggi viaggia intorno agli ottanta e quando eravamo ragazzi era già sulla cresta dell’onda. Fratelli e sorelle maggiori in un certo senso, perché senza un immaginario non esiste neanche la realtà e il nostro immaginario lo popolavano loro. E’ obbiettivamente un po’ triste come considerazione, ma consola l’idea che, se la realtà prima o poi uccide se stessa, l’immaginario, nel suo oltre, rimane invulnerabile e immortale e tutta quella gente che non è fisicamente più presente fra noi, lì dentro ancora vive e ancora ci fa sorridere, emozionare, imparare. E ci rendiamo conto con un sorriso, che finché siamo vivi noi sono vivi anche loro, per sempre. Perché l’unico sempre che conta, in definitiva, è quello che viviamo.
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