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Marco Gentili

Politicamente approvato

Il mondo del cinema è vessato, ormai da svariati anni, da quello che consideriamo a tutti gli effetti una piaga, ovvero: il politicamente corretto.

Il politicamente corretto non è altro che l’adattamento di qualsiasi personaggio, azione, nome e comportamento, attuato allo scopo di evitare che nessuna categoria di persone possa ritenersi offesa o discriminata. Sì, perché la modernità, oltre ad averci dato la possibilità di mangiare insetti al posto dei retrogradi e inquinanti formaggi d’alpeggio, ha anche permesso a chiunque si senta preso in causa, di creare nuovi raggruppamenti, nuovi aggregati umani, cui attribuire le caratteristiche che meglio credono e che, proprio in quanto gruppo omogeneo, possono dire la loro su quello che il cinema e i media in generale, propongono, spesso e volentieri con atteggiamenti oltremodo critici.


Un esempio è il caso di Nano, la ragazza di origine norvegese che, da quando ha 16 anni, si crede un gatto e passa le sue giornate miagolando e camminando a quattro zampe… chissà se usa la lettiera. Oppure Yuri Tolochko, un famoso bodybuilder di origine kazaka, che ha deciso di convogliare a nozze con Margot… una bambola gonfiabile, che, a detta dello sposo, dei due è stata quella a fare la proposta di matrimonio. Ora, fermo restando che queste scelte fanno parte della vita privata di ognuno, immaginatevi se tutto d’un tratto Nano si sentisse offesa perché gli attori di un film non miagolano o fanno le fusa come lei; oppure, se Yuri d’ora in poi pretendesse che in tutti i film in cui si svolge un matrimonio, gli sposi fossero un umano e una bambola. Tutte queste persone vivono nel costante terrore che nei film, o in qualsiasi prodotto d’intrattenimento, non venga presa in considerazione la loro condizione e qualora questo capriccio non venga soddisfatto, ecco che partono le nuove crociate.


Il politicamente corretto, in questo senso, ha mietuto più vittime di qualsiasi conflitto e il problema è che sembra volerne ancora. Gli effetti di questo “morbo” li vediamo costantemente. Un esempio su tutti: il cambio di etnia di certi personaggi. Ora, a scanso di equivoci, precisiamo che il razzismo non c’entra nulla: un attore è un professionista che deve interpretare un ruolo, affidatogli dal regista, e su questo credo che non ci sia da obiettare. È indiscutibile che l’attrice che ha interpretato Mulan, nel live action Disney, dovesse essere cinese; anche perché difficilmente si potrebbe immaginare una Mulan di etnia scandinava o latina. Lo stesso ragionamento va fatto per il film “Black Panther”, dove gli abitanti del Wakanda dovevano essere ovviamente di etnia africana. Immaginateveli tutti quanti di Bolzano… ecco, appunto, ridiamoci su.


L’etnia deve essere scelta in funzione di ciò che si va a raccontare e in base ai canoni del personaggio che l’attore dovrà interpretare. Non a caso, per i biopic “Bohemian Rapshody” e “Rocketman”, sono stati scelti due attori che potessero ricordare visivamente Freddy Mercury per il primo e Elton John per il secondo. Eppure, su questi due film aleggia un’aura di scontentezza, data dall’eterosessualità di Rami Malek e di Taron Eggerton. Infatti, secondo alcuni (pochi, per fortuna) attivisti di varie associazioni LGBT, i protagonisti dei film citati poc’anzi sarebbero dovuti essere interpretati da attori omosessuali. Questa diatriba è solo una delle tantissime che si avvicendano ogni giorno nel panorama cinematografico. Un altro esempio è il malcontento dietro alla scelta di Will Smith per il ruolo di Richard Williams, il padre di Venus e Serena. Per quale motivo, visto che Richard Williams è un uomo di etnia afroamericana? È presto detto: Will Smith non è abbastanza nero per interpretare il padre delle tue tenniste.


Una discussione dello stesso calibro ma che, a differenza di questa, è passata dall’altra parte, è stata la trasposizione di Netflix “La caduta di Troia”, che mostra un Achille nero. A questo punto, una domanda sorge spontanea: perché se avessero tramutato, in un ipotetico biopic, Malcom X in caucasico si sarebbe urlato alla scandalo, mentre per Achille nero si parla di grande apertura mentale?

Una situazione simile è capitata anche con la serie “Once Upon a Time”, dove Sir Lancillotto ha i caratteri somatici di un africano.


Appare evidente, quindi, che difficilmente simili contestazioni possono essere prese sul serio. Il punto, su cui NESSUNO può dire nulla, è che chiunque deve avere la possibilità di partecipare ad un progetto audiovisivo; ma questo non significa che certe peculiarità debbano essere sostituite esclusivamente in nome del politicamente corretto. È notizia di ormai qualche settimana fa il caso di Peter Dicklage e l’accusa di “nanofobia” nei confronti del prossimo live action di “Biancaneve e i sette nani”. Secondo l’attore, la fiaba dei Grimm e la sua trasposizione disneyana sarebbero offensive nei confronti delle persone affette da nanismo; ergo, il colosso di Burbank ha optato per eliminare le figure dei sette nani e sostituirli con altre creature fantastiche. Ed ecco che il polically correct ha compiuto la sua semina di eguaglianza, stuprando un’opera e impedendo a sette attori (magari affetti da nanismo) di lavorare. A tal proposito, è giusto capire il pulpito da cui proviene questa predica: Peter Dicklage, attore divenuto famoso per aver interpretato Tyrion, un nano.

Non tutti sanno che, agli albori del cinema, capitava di sovente di utilizzare attori caucasici per interpretare dei pellerossa; una pratica, oltre che grottesca, anche inutile. Se sono richieste fattezze proprie e specifiche, è giusto scegliere attori di quella precisa etnia. Ma è giusto anche spiegarci, a questo punto, che senso ha utilizzare un attore latino, afroamericano o asiatico, quando il personaggio da interpretare è dichiaratamente caucasico.

La dissertazione sull’argomento potrebbe anche finire qui, ma la lista di vittime che il politically correct ha mietuto è molto lunga e c’è ancora qualcosa da puntualizzare.

Non deve passare, leggendo queste considerazioni, che, attraverso il cinema, non ci si debba battere per i più deboli. Il cinema, fin dalle sue origini, si è sempre battuto a favore delle categorie più fragili; il problema è che negli ultimi anni si è preferito scegliere la via della filantropia da salotto, ovvero azioni compiute esclusivamente per imbellettare la propria immagine pubblica. Un esempio? Lina Wertmuller, regista straordinaria, autrice di capolavori del cinema italiano, ahinoi, è diventata un esempio di ciò che si sta raccontando. È stato spiazzante sentirla parlare durante la cerimonia di consegna dell’Oscar alla carriera, per mano della divina Sophia Loren, quando ha iniziato uno sproloquio sul fatto che la statuetta del tanto ambito premio, rappresentasse un uomo, definendolo maschilista. Secondo la grande regista, il premio Oscar dovrebbe essere tramutato da uomo a donna, per essere più inclusivo.


Ma dov’è che la Wertmuller ha sbagliato? Non tanto nelle parole, che per quanto asettiche e prive di fondamento, potevano anche starci, ma nei fatti; non a caso, per quanto quel premio risultasse maschilista per la grande Lina, è andato comunque a casa con lei.

In base allo stesso principio, e in conclusione, accenniamo a un fatto di vera filantropia e di difesa degli oppressi, talmente grande da “riecheggiare nell’eternità” (cit.): la consegna dell’Oscar a Marlon Brando per “Il Padrino” nel 1973. Al momento della consegna, Liv Ullmann e Roger Moore, che presentavano la premiazione, chiamarono Brando sul palco, ma al suo posto salì Sacheen Littlefeather, una giovane apache. I presentatori, porgendo il premio alla ragazza, videro la mano di quest’ultima rifiutare l’ambita statuetta e, imbarazzati, non poterono fare altro che lasciarle il palco per il suo messaggio. Marlon Brando le chiese di rappresentarlo in quella serata e le chiese di dire che, finché non ci fosse stata l’inclusione paritaria dei nativi americani nei set hollywoodiani, il grande attore non avrebbe accettato l’Oscar… e così fece.


La questione del politicamente corretto, se analizzata con criterio, si rivela essere una passerella, sulla quale chi trova la minoranza offesa vince un premio umanitario.

In questa sede, non si sta dicendo che certe caratteristiche umane sono preferibili rispetto ad altre; al contrario, a meno che non sia richiesta una fattezza particolare, certi dettagli (il colore della pelle, l’orientamento sessuale l’etnia) non dovrebbero nemmeno interessarci. Non a caso, queste battaglie del polically correct vengono portate avanti da quelli che potremmo definire “filantropi da salotto” e dai loro accoliti, i “filantropi da social”. In entrambi i casi, la loro presunta filantropia non è altro che una merce di scambio, a vantaggio dell’immagine pubblica per i primi e di like e sharing per i secondi.

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