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QUELL’UOMO IN GABBIA, È UNO DEI PIU’ GRANDI POETI DEL XX SECOLO

Un uomo in gabbia. La storia lo ha trasformato quasi in un martire. Perché lui è solo un artista e un poeta, ma con un’ossessione: l’usura. In scena, dentro la gabbia, c’è Ezra Pound che racconta la sua storia, a partire dalla detenzione ad Arena Metato, in provincia di Pisa, al termine della Campagna d’Italia.

È accusato di collaborazionismo e alto tradimento, perché dai microfoni dell’Eiar e poi da Radio Roma della Repubblica sociale ha condotto Europe calling, Ezra Pound speaking. Per aver osato paragonare Mussolini a Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. Per aver tuonato contro i finanzieri che hanno voluto la guerra.


Colui che avendo per guida Confucio scrisse i Cantos, per dare all’America un poema che fosse paragonabile alla Commedia di Dante e all’Odissea di Omero. La più straordinaria avventura intellettuale in versi del secolo scorso. Quella che fece dire ad Eliot di aver avuto per Maestro il miglior fabbro.


Il cantore dell’America dei Padri fondatori: Un manipolo di gente che vivendo di poco e non indebitandosi, portò in America e conservò una cultura alta e severa e un senso civico nutrito delle tradizioni della libertà legale inglese. Un sistema permeato dello spirito dell’antica Roma che il mondo della grande finanza avrebbe inquinato.


Un nemico oscuro che Pound combatté da intellettuale. Un conflitto il cui fulcro è rappresentato dall’usura, affrontato con un’ingenuità destinata a costargli cara: la prigionia per quasi un mese in una gabbia all’aperto in Italia, dopo l’arresto nel 1945, colpito da un’accusa infamante che poteva costargli la condanna a morte.


Poi, al rientro in patria, i dodici lunghi anni di internamento nel manicomio criminale di Saint Elizabeth e la diagnosi di una asserita e mai provata infermità mentale che lo fece liberare nel 1958, al termine di una campagna alla quale partecipò gran parte del mondo intellettuale americano e, infine, l’esilio veneziano.


Questa è l’istruttoria del caso Pound scritto e portato in scena da Leonardo Petrillo. Un accorato e sofferto monologo interpretato da Mariano Rigillo, che ricorre soprattutto ai Cantos pisani, per cercare di ricomporre i frammenti di un’anima lacerata dal conflitto. Quello che si concluse con uno schianto, non con una lagna.


Nelle scarne scene di Gianluca Amodio, assistiamo dunque al processo che Ezra Pound non ha mai avuto in vita. La sua è un’autodifesa e il giudizio viene rimesso ad uno spettatore che non può rimanere impassibile davanti alla vicenda umana e alla profondità dei versi declamati da Anna Teresa Rossini.


Una rappresentazione teatrale che libera finalmente Pound dalla gabbia nel quale è stato rinchiuso fino a ieri. Un vinto che alla protervia dei vincitori ha opposto la sua indomita fierezza: Quello che veramente ami rimane, / il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità.

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