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1970 di Tomasz Wolski: uno sguardo tagliente sulla Polonia comunista

Stefano Coccia

Uno dei più grandi autori del cinema polacco, Andrzej Wajda, ci aveva regalato a suo tempo L'uomo di marmo (Człowiek z marmuru, 1976) e L'uomo di ferro (Człowiek z żelaza, 1981), pellicole di spessore in cui con acume e amara ironia si lasciava che affiorassero le contraddizioni di una società incancrenita, fortemente burocratizzata e soggetta a rigide forme di controllo.

Ora che quel regime, dal cui interno Wajda operava in senso critico ma con encomiabile scaltrezza, è stato spazzato via dalla Storia, ritornare sulle sue malefatte attraverso il cinema, la letteratura o la musica ad alcuni potrebbe sembrare accessorio. Ma non è così. Perché è opportuno, al contrario, che la memoria storica non resti confinata in un cassetto. E così dopo L'uomo di marmo e L'uomo di ferro possiamo ora ammirare questi "uomini di plastilina". Burocrati e generali in plastilina, a voler essere precisi, straordinariamente somiglianti alle personalità politiche reali che li hanno ispirati; animati poi attraverso la stop motion e fatti pertanto "risorgere" dal passato ignominioso in cui erano stati relegati.

A ben vedere non sono soltanto le ingegnose ed estremamente creative scelte formali, vi è ovviamente dell'altro, a giustificare la realizzazione di 1970 da parte di Tomasz Wolski, documentarista che rappresenta una delle voci più importanti del cinema polacco contemporaneo. Nel caso specifico a innescare tutto è stato il ritrovamento di registrazioni dei più importanti funzionari governativi, allorchè si ritrovarono a pianificare la repressione delle agitazioni scoppiate, nel corso del 1970, tra gli operai di Danzica o di altri cantieri navali dislocati lungo la costa, ma allargatesi ben presto ad altri settori della società civile. Tali registrazioni sono innanzitutto testimonianze accurate del cinismo e del profondo distacco emotivo, da parte dei guardiani del cosiddetto "socialismo reale", nei confronti di quella stessa classe operaia dei cui presunti interessi, ipocritamente, si consideravano i portavoce. Ma cosa c'era dietro quella violenta esplosione di rabbia, cui erano andati incontro i portuali di Danzica e dei paraggi?

Di fondo c'era l'amara constatazione che il sedicente "paradiso dei lavoratori" di paradisiaco aveva sempre avuto ben poco. E con l'ultima crisi, che ne aveva messo in ginocchio la sempre più traballante economia pianificata, i funzionari di partito non avevano trovato di meglio che rincarare all'inverosimile i prezzi dei beni di prima necessità, a partire dal pane, proprio nei giorni precedenti alle vacanze natalizie. L'arma con cui i lavoratori si erano ribellati a questa ennesima aberrazione era stata, neanche a dirlo, lo sciopero, con tanto di occupazione dei principali cantieri. Ma si può avere la pretesa di scioperare, in un paese comunista? Ovviamente no. Perché ben presto arriveranno la milizia e i carri armati, a ribadire il fatto che un detto come "la pace regna a Varsavia" aveva avuto origine, parecchio tempo prima, proprio da quelle parti...

Questo stupefacente documentario diretto da Tomasz Wolski lo si è scoperto grazie al 33° appuntamento con il Trieste Film Festival, manifestazione cinematografica nei cui concorsi abbiamo sempre rinvenuto perle, in grado di rischiarare aspetti controversi della Storia contemporanea europea. Con particolare attenzione agli eventi dell'area centro-orientale, naturalmente. E non a caso l'altro documentario di rilievo, tra quelli visionati quest'anno a Trieste (o meglio... come se fossimo a Trieste, dato che per via delle "draconiane" disposizioni di Draghi, lo Jaruzelski "de noantri", il festival lo abbiamo dovuto coprire "da remoto"), era stato Reconstruction of Occupation del ceco Jan Šikl: un'altrtettanto sconvolgente rievocazione, attraverso materiali pure qui inediti, delle amare conseguenze della Primavera di Praga.

Tornando a 1970, non ci soffermeremo qui sulle singole biografie dei militari, dei dirigenti del Partito Comunista e degli alti ufficiali di polizia che si presero la responsabilità di una repressione spietata, la quale costò decine di vite umane soltanto tra i civili. La Storia li ha già condannati. E non meritano con il loro grigiore ulteriore "celebrazione", che non sia quella suggeritaci da certi versi di Giorgio Gaber riferiti, in primis, al contesto italico, ma dotati a nostro avviso di un respiro più ampio: "Che sian untuosi democristiani / O grigi compagni del Pci / Son nati proprio brutti / O perlomeno tutti finiscono così".

Ecco, se non proprio brutti decisamente grotteschi sono anche i pupazzi messi in scena da Wolski, in tetre scenografie da noir anni '40, con le quali si è voluto rappresentare palazzi ministeriali, studi privati di politici, caserme e altre cattedrali del potere. Ciò che rende insolito è appassionante un documentario come quello del regista polacco è proprio la sorprendente ritmica interna, il dialogo fitto e necessario tra questi oscuri siparietti, realizzati con le figure di plastilina, ed il ricco materiale d'archivio: riprese di dimostrazioni operaie, di arresti arbitrari, di adolescenti e ragazze dall'aria innocente strattonati, malmenati, umiliati e derisi da brutali uomini in divisa, schierati a difesa di ancor più porcini uomini di partito, che avevano pure l'aggravante di fare questo giustificandolo con presunti interessi del popolo e del "proletariato". Quello stesso proletariato che avevano prima ridotto alla fame, poi colpito duramente al momento, inevitabile, della ribellione. Sono questi altri solamente alcuni dei motivi per guardare con attenzione 1970, documentario più avvincente di tanti prodotti di fiction.

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