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Cinema - Daniele Vicari ci conduce sulle tracce del L’Alligatore

Aggiornamento: 23 mar 2021


L’Alligatore è l’occasione buona per tornare ad intervistare Daniele Vicari. Gli anni e l’esperienza lo hanno reso più riflessivo e hanno alimentato un lato sentimentale che da ragazzo (lo eravamo tutti e due, ragazzi, quando ci conoscemmo in occasione di Velocità massima), era meno evidente. Regista e sceneggiatore tra i più colti del nostro panorama, si definisce un montanaro. Aspetto del carattere con cui nel tempo è sceso a patti. Durezze e spigolature caratteriali comprese. Un po’ come i personaggi a cui dà vita. Tra un passaggio all’altro, nel quale si rimbalza come scambi tennistici tra cinema e letteratura, ci parla della sua particolarissima quarantena. Che a ben vedere può essere presa a modello per trasformare un momento per molti versi tragico, in qualcosa di altamente proficuo.


Ciao Daniele, bentrovato. Come state Costanza e tu?


Hei, ciao, tutti bene, grazie e tu?


Anche, grazie. Allora, andiamo a ritroso: L’Alligatore. Analogie e tradimenti rispetto ai romanzi di Carlotto. Fino a che punto hai avuto autonomia e in quale misura ti sei confrontato con l’autore?


Mi sono confrontato con lui proprio per avere autonomia. Quando uno entra in casa d’altri , bussa. Non s’appropria di idee non sue, deve solo farsene compenetrare e scegliere. In particolare avevo la necessità di mettere a fuoco il suo immaginario. ll mondo di Carlotto è poetico, devi relazionarti non solo con personaggi fuori da ogni norma ma anche con un universo fantastico. Più vicino all’hard boiled che non al giallo in senso stretto. Lui quel mondo lo ha dentro di sé, e attraverso i suoi testi lo trasfigura nel reale della scrittura, che è atto concreto e materiare, come filmare.


Da autore apprezzo la metafora del bussare alla porta. Hai diretto Il passato è una terra straniera, trasposizione del romanzo di Carofiglio, come ti spieghi la vitalità della letteratura gialla (o noir, alla francese), poliziesco, hard boiled italiana?

In questo momento la scrittrice italiana più famosa nel mondo è Elena ferrante, che non rientra in quei canoni. Ma c’è un evidente proliferare di autori di genere. Lo attribuisco al fatto che la complessità della realtà comporta una qualche forma di semplificazione. Di leggere la realtà e le psicologie degli esseri umani con uno strumento intellegibile. Il lettore, come lo spettatore, ha necessità di questi agganci per dare senso all’esperienza umana, alla propria condizione, e questi scrittori hanno trovato chiavi d’accesso più immediate. La scrittura in qualche modo ci viene incontro, ci coccola.

Cosa leggi? E se hai un libro per le mani, cosa stai leggendo in questo momento?

Io leggo di tutto. Dalla saggistica alla narrativa. In questo momento sto leggendo La Città dei vivi. Cerca una chiave di lettura per rimanere a galla in un mare di dolore, come tutti noi, specie in questo periodo strano.

I due mesi di quarantena come li hai trascorsi?


Bene! Ho lavorato moltissimo. Post produzione de L’Alligatore. Nello stesso tempo ho creato una casa di produzione: la Kon-tiki film con Andrea Porporati e Francesca Zanza e abbiamo prodotto un film, Il giorno e la notte. Tra marzo e aprile e maggio lo abbiamo girato. Un film “a distanza”. Un film collettivo. Ho coinvolto nove attori che ringrazio per tutto ciò che mi hanno dato. Sono andati molto oltre l’impegno interpretativo. Matteo Martari, Francesco Acquaroli, Milena Mancini, Vinicio Marchioni, Isabella Ragonese, Barbara Esposito, Dario Aita, Elena Gigliotti, Giordano de Plano. Ho diretto una troupe virtuale, in sostanza, che poi è la mia troupe, i miei collaboratori più stretti. Gli attori si sono sottoposti ad un autentico periodo di formazione sulla tecnica di ripresa, ad ognuno abbiamo messo a disposizione un kit di ripresa. C’è stata tutta una fase di sopralluoghi all’interno delle loro stesse abitazioni. Una vera e propria trasformazione degli ambienti per la messa in scena.


Suggestivo e innovativo. Può diventare un solco da seguire. La trama?


Storie di coppie. In un’unità di tempo e luogo. Il tutto si svolge nell’arco di ventiquattro ore. Durante lo stesso periodo ci siamo dedicati ad un documentario che esplora la storia d’italiani che sono rimasti bloccati in giro per il mondo durante i blocchi a causa del covid, anche questo un’opera collettiva e corale.


Sei inarrestabile. Sia il film che il documentario m’intrigano, e mi offri il gancio per la domanda successiva: il piglio documentarista è sempre nel tuo cinema, Si pensi a Diaz. Verità nella finzione.


Verità e realtà non è sempre un binomio. Nei personaggi di Carlotto c’è una grande verità, sono tutti sconfitti. La sconfitta dà senso alla tua vita. Per il resto, L’Alligatore “artefatto”, nel senso che trova la sua realtà in un mondo probabile ma non reale. E interessante lavorare sulla finzione così come è interessante lavorare su avvenimenti storici. Non c’è nessuna contraddizione. Il regista si definisce attraverso gli stilemi che utilizza, può scegliere due strade: la coerenza nella forma o la coerenta nell’atteggiamento. Spariamo alto e prendiamo Kubrick, che non ha fatto un film uguale all’altro. Ha la capacità di attraversare tutti i linguaggi, la coerenza è nel suo atteggiamento verso la narrazione. Mentre Antonioni segue una sua linea di forte continuità stilistica. Nel gioco della messa in scena ognuno si colloca nel posto che gli sta più comodo. E sono entrambi all’apice più alto della cinematografia del 900.


Da Ladispoli a Bari a Venezia, il mare ti porta bene? Hai mai pensato di realizzare un sequel di quel gioiello di Velocità Massima? Ho sempre negli occhi quelle soggettive…


Eh, non so…concepisco i film come episodi. Quindi che siano unici. Solo una volta sono tornato sul luogo dal delitto. Per riprendere i temi del mio primo lavoro, il documentario Uomini e lupi. Ma più giravo più ero pervaso da una sensazione di déjà-vu. Si tende alla ripetitività. No, non c’ho mai pensato ma non lo escludo. Un giorno potrei avere voglia di vedere come vive Claudio. In fondo alcune cose sono rimaste aperte

Penso che un regista che si muove sugli archetipi, difficilmente sbaglia. La vendetta, l’amore ideale, tu vi fai soventemente ricorso. Tornando al noir, Mastrandrea interpreta Ginko nel Diabolik dei Manetti, che attore è? E Martari?


Valerio è una persona cara. Conoscerlo è coinciso col conoscere il cinema. Ci ho fatto due film e poi abbiamo fondato una scuola di cinema, la GM Volontè. Abbiamo intrapreso ognuno la propria strada ma è sempre una gioia ritrovarlo nel lavoro ormai decennale della scuola. Valerio ha portato nel nostro cinema un elemento aggiuntivo col quale ti devi confrontare: è un attore pensante. E stata una sfida lavorare con lui perché mi ha spinto oltre i miei schemi di principiante. È un compagno di strada e d’avventura. Matteo una bella scoperta, gli feci un provino per un film sulla trageda del Freney, Bianco. Il film non l’ho realizzato, successivamente quando ho accettato di dirigere L’Alligatore, ho pensato a lui. Ho fatto provini a vari attori, durante il suo, sollecitandolo a tirare fuori il dialetto veneto, si è trasformato davanti i miei occhi nell’Alligatore. Non è solo un fatto legato ai timbri vocali, alla cadenza, è qualcosa di più radicale. Io per esempio sono un montanaro, certi aspetti del carattere, come quella durezza che ti dà la montagna, puoi smussarli, seppellirli momentaneamente ma sono lì, dentro di te, pronti a saltar fuori. Allo stesso modo, lui è cresciuto coi piedi infilati nell’acqua della laguna. Sceglierlo è stato naturale. L’ho voluto anche ne Il giorno e la notte, perciò da quel film non fatto ne sono venuti due. Un incontro fortunato, bello, profondo. Abbiamo costruito un personaggio diverso da quello di Carlotto. È più giovane sia anagraficamente che generazionalmente. Ma ho tenuto la dimensione “segreta”, intima del personaggio originale. Quando trasponi non puoi evitare di attualizzare, ma questo non significa automaticamente tradire. Anche se a volte il tradimento nel cinema è una virtù.

Per dire, l’amico Max “La Memoria”, interpretato da Gianluca Gobbi, nel romanzo è un ex militante politico anni 70, nell’attualizzazione che ne abbiamo fatto è un ambientalista. Pur di proteggerlo l’Alligatore finisce in galera per le sue intemerate. Attualizzazione, trasformazione per esigenze narrative (ad un trentenne può fregare qualcosa della contestazione, degli anni ‘70? Soprattuttto li conosce?), ma rispettandone l’essenza e il senso è ciò che abbiamo fatto in questo caso. Max mi piace. È un archivio vivente sa tutto di tutti, come Rossini è un imbattibile pistolero: L’Alligatore è puro divertimento cinematografico, è un bel gioco.


Ma lo sai che la trama de Il passato è una terra straniera mi ricorda parecchio cattive compagnie una gran bel thriller di una trentina d’anni fa?


Davvero? Non lo conosco. Quando l’ho letto ho pensato immediatamente al Demian di Erman Hesse. C’era qualcosa che non mi tornava nella sceneggiatura, qualcosa di non completamente risolto. Il romanzo non chiudeva realmente la storia. Non arrivava al punto. Con i fratelli Carofiglio e Massimo Gaudioso, con i quali ho firmato la sceneggiatura, ho reso la storia forse più dura, ma dandogli una finalità: Elio Germano e Michele Riondino sono la stessa persona, sono un doppio, ma il bene e il male abita in entrambe i personaggio.

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