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Dove sta andando la canzone italiana?

Aggiornamento: 23 mar 2021

Piccola pungolatura scaturita da uno sfogo su Facebook a tarda notte, durante la finale di Sanremo Giovani


In questi giorni ho ascoltato, spesso in diretta, i ragazzi che sono stati in gara per andare a Sanremo. Alcuni sono bravi, li ho avuti ospiti in studio o al telefono, oppure li ho passati su New Entry, il programma di Radio Italia Anni 60 dedicato alle nuove uscite discografiche emergenti. Mi sono augurato ce la facessero.


Ma altri... altri... be’.


Mi sgancio da questa gara e faccio un discorso generale, sintetizzando quello che potrebbe essere scritto in un libro.


Come vi ho anticipato, prendetelo come uno sfogo.


Spesso questi ragazzi sono l’espressione di una moda chiamata “indie” (una volta essere indie era un percorso indipendente, oggi lo hanno trasformato in genere musicale e significa fare pop leggero) che a volte sforna cose interessanti, ma molto spesso livella verso il basso la qualità delle canzoni.


Non ai livelli dei Talent-karaoke, intendiamoci, non sono il peggio che c’è in circolazione, ma me la prendo con loro perché è proprio da loro che mi aspetterei spunti interessanti. E invece spesso i loro prodotti sono l’elogio della banalità, dei concetti semplici e scontati, della cosiddetta canzone “visuale”. La canzone visuale è quella in cui non ci si spreca a parlare di cose che fanno pensare, di figure retoriche interessanti che nascondono profondità intellettuali, atteggiamenti ribelli o al limite erotismo criptico. Parlano di quello che uno vede in quel momento, o di quello che immagina di vedere. Una specie di nouvelle vague, in cui alzarsi al mattino, fare colazione, uscire, stare nel traffico, comprare un paio di mocassini orrendi e andare in depressione perché non scrive la tizia o il tizio che piace, sono cose che diventano argomento della canzone.


Come se a noi ce ne fregasse qualcosa.


L’elogio della banalità dicevo. Un tempo i ragazzi rischiavano di farsi arrestare solamente per il gusto di fare qualcosa di diverso rispetto alla società, volevano essere alternativi. E lo erano anche nella scelta musicale, nella composizione, nel lessico.


Generazioni di cantautori, prima stranieri, poi italiani, che non avevano paura di cantare il vero spirito del rock(termine utilizzato anche dal giurato Piero Pelù nei confronti di un finalista).


A questi non gliene frega niente. Vogliono stare nel porto sicuro, vogliono farsi cullare nel lettino con il carillon e le apette sulla testa, cibandosi di quello che gli viene imboccato.


Non vogliono approfondire nulla! Sia mai che vengano presi per pedantissimi intellettuali psicoanalisti, quando in realtà tutte le canzoni che ci piacciono messe in loop nel mangiadischi/walkman/lettore cd/mp3/iphone sono sempre state meglio di una seduta psicoanalitica.


Ragazzi sveglia! La trap (che musicalmente non è l’elogio del talento, con alcune eccezioni) vi sta asfaltando perché seppur spesso in modo stonato e volgare, è più ribelle. Si, dicono anche tante cretinate , ma non hanno avuto paura di dire quello che vogliono e alla fine il mercato discografico li ha inglobati.


Non so cosa darei per poter dire “ammazza, che bell’album che ha sfornato questo/a!”


Ed invece devo emozionarmi nel comprare il vinile del quarantennale di “Dalla” in cui ci sono canzoni del 1980 che sembrano scritte nel 2030.


In cui chi è un po’ più sveglio legge in semplici canzoni d’amore racconti e riferimenti di movimenti artistici, di figure retoriche oniriche, di guerra fredda, di massoneria, di previsioni di cose che avverranno anni ed anni dopo. E chi lo è meno si gode la canzone d’amore.


Ora, io non pretendo un nuovo Dalla. Ma manco un Piatela.


Bene,mi sono sfogato.


Ai ragazzi che ho conosciuto, e che ho apprezzato,un enorme abbraccio ed un “in bocca al lupo” per ma loro avventura sul palco dell’Ariston. Non cadete/scadete mai nella banalità, anche se è il pubblico a chiederlo. Lo dovete educare voi.

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