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In attesa degli Oscar: perché Top Gun Maverick convince. Poco

Non ci dilungheremo sulla trama. Diamo per scontato che chi leggerà questo articolo, lo abbia visto. È uno dei filmissimi dell’ultimo periodo, candidato all’Oscar, cosa che da sola vale la vittoria, considerando quanto poco spesso capiti che un film action-bellico sia ammesso (il caso Black Panther si spiega con ragioni che poco hanno a che fare con il celluloide). Ma nel remoto caso che qualcuno se lo sia perso, eviteremo di anticipare troppo (e non “spoiler” se possiamo dire “rivelare/anticipare”, perché non usarli a beneficio della nostro serbatoio-arsenale lessicale?). Immaginiamo il sopracciglio alzato. Ma come, pure la ramanzina sul linguaggio? Non lo sa questo dinosauro che il linguaggio si evolve? La notizia è che lo sa. Poi occorrerebbe soffermarsi sulla direzione in cui si evolve. Ma al di là della linguistica, il punto è che quando uscì  Top Gun, il termine spoiler non lo usava nessuno perché non lo conosceva nessuno. Il nocciolo sta tutto qui. Tra l’evoluzione del linguaggio e il film e il suo sequel interviene la medesima simmetria.

Intendiamoci, Top Gun Maverick è spettacolare. È vedibilissimo. È un film d’azione coi controfiocchi ma Oscar o no, è solo un film che viene dopo. Il problema di Top Gun Maverick è lo stesso accusato da Il Risveglio della Forza, entrambi i film inseguono piuttosto che dettarle, le regole del gioco. Tanto Guerre Stellari (e basta con ‘sta Una Nuova Speranza), quanto Top Gun furono opere oggettivamente rivoluzionarie. Entrambe crearono filoni cinematografici, entrambe esibirono tecniche di regia totalmente inedite a beneficio dello spettatore e imposero dei canoni che sono sopravvissuti nel tempo. In una parola, due opere pionieristiche e seminali, due colpi d’ala sulla direttrice del genio in grado di modificare la realtà nei decenni a seguire. Nella fattispecie, sono debitori di Top Gun, titoli come Aquile d'attacco, Into the Sun, Reazione Immediata (Black Thunder), nonché il parodistico Hot Shots!. Un filone robusto costituito da onestissimi film mediamente e immediatamente godibili che testimoniano l’effervescenza che gravitò attorno al cult movie di Tony Scott.

Maverick, esattamente come Il Risveglio ma comunque meglio de Il Risveglio, si accontenta di fare il verso all’originale. Fortuna che almeno stavolta Great balls of fire è stata graziata dal doppiaggio. 

La sceneggiatura non osa. Non propone una visione goliardicamente suprematista, ed è un errore. Nomen omen, la scuola si chiama Top Gun. L’eccesso è nella sua stessa natura. Questo sequel sembra invece adattarsi su consuetudini low profile. Se vale il fatto che la Guerra Fredda è finita (in realtà ci siamo dentro come non mai), e il ricalcare diegeticamente l’enfasi rambista che contrassegnò quel cinema può attestarsi come un anacronismo, anche ricollocare un sessantenne su un F/A-18F Super Hornet lo è.

Renderlo vulnerabile e roso dai rimorsi non lo fa essere più credibile. Come non ci riesce il calcare la mano sull’impatto che la sua professione ad alto rischio e la sua presunzione hanno avuto sulla sua vita personale. Maverick è il pilota che ha volato a testa in giù su due Mig, non si può non partire da questo assioma. Come tale, l’eroe Maverick funziona solo nella sua dimensione iperbolicamente archetipica. Solo in quella è credibile. Se la riproposizione didascalica di un personaggio più anziano di trentasette anni avrebbe suggerito un risolino di scherno, farne una reliquia è stato utile solo a suscitare una lacrima fuggevole ma il forzato realismo è vero cinema?

Dunque il film non osa e non osando, trasuda cliché livellati su di un piatto battutismo modaiolo ammiccante al registro delle sit con ma del tutto fuori contesto. Una per tutte, l’insignificante scenetta col tizio appollaiato sullo sgabello che del tutto inosservato guarda la prova muscolare tra  Hang Man e Rooster, i due maschi alpha che puntano la tostissima Phoenix. Il tizio si chiama Bob. Quando finalmente prendono atto della sua esistenza i tre piloti al top lo fanno letteralmente a pezzi. Del resto lui non fa nulla per impedirlo.  “Bob”, risponde con voce neutra quando gli chiedono il nome di battaglia. Tra rispostine vacue e espressione da autistico che non stonerebbe in Rain Man (per evocare un altro box office di Cruise), impiega meno di un istante a diventare lo scemo del villaggio, eppure “Bob” è il top gun dei navigatori. Come lui ce ne sono pochi, meglio di lui, praticamente nessuno. Ciò che desta perplessità non è tanto la normalizzazione di Bob quanto il fatto che in barba alla coerenza, un “Bob”, per il Cencelli di Hollywood, non può mai mancare. Assistere a Top Gun Maverick è come guardare un film di montaggio sui luoghi comuni del cinema contemporaneo con al centro il rapporto genitore-figlio e corredato da immaginette standard assortite. Ed ecco la figlia adolescente e pedante della vecchia fiamma di Maverick, la sempre incantevole Jennifer Connelly, che intima allo scapestrato impenitente di non spezzarle di nuovo il cuore. Purtroppo il registro su cui si è puntato è una riscrittura di ciò che da Tron Legacy a Die Harder un buon giorno per morire, da Indiana Jones a Cobra Kai, da Han Solo ne Il Risveglio della forza fino a Creed si è già visto,un continuo intreccio delle figure retoriche: mentore/ allievo; padre/figlio ma in chiave conflittuale. Top Gun Maverick è l’ennesima scrittura a cavallo di un fiacco sentimentalismo ridondante che suscita immediata commozione ma che con medesima tempistica, cioè in men che non si dica, si eclissa senza lasciare traccia  di sé. Ne guardi una scena e la mente naviga lontana all’inseguimento di frammenti di altre visioni al celluloide. E lasciandosi naufragare sospinti dalle correnti di questo flusso suggestivo, si approda alla scena che vale il film: l’attacco a volo radente percorrendo un canalone stretto e super difeso per centrare con un tiro singolo un bersaglio minuscolo. La scena è notevole, puntualizzazione doverosa per onestà intellettuale. Forse poteva essere anche più estesa affinché la percezione del possibile fallimento si delineasse davanti agli occhi dello spettatore, tuttavia a un certo punto non si è certi se la voce in radio sia quella di Maverick o di Luke Skywalker. 

La sequenza nella sua concezione è la medesima di quella che conclude trionfalmente Guerre Stellari.  Ma Maverick ponendosi all’estremo di un postmodernismo di maniera fa il verso un po’ a tutto, compreso il primo Top Gun, moto, giubbotto, texani compresi. L’immancabile corollario di brani musicali del decennio rampante ammicca maliardo ma l’incantesimo evocativo ha più le fattezze di una cortigiana stanca da eccesso di zelo che non di una conturbante vestale che culla tra seno e braccia gli ex ragazzi del 1986. L’indigestione di autocitazionismo ha il suo apogeo nel pararsi davanti a un vecchio F-14 Tomcat con cui Maverick e Rooster si danno alla fuga dopo aver abbattuto due caccia di quinta generazione. E in questo momento ritroviamo lo spirito di Top Gun, il ferro vecchio ritirato dalle forniture militari già da tre lustri è ancora in grado di cantarla anche ai più avveniristici dei jet da combattimento. Chiara la metafora, in età pensionabile o no, reliquia di un’epoca remota o no, Maverick è sempre il numero uno dei cieli.  Ma a tutto c’è un limite, persino alla sospensione della credibilità, quindi quando un Sukhoi Su-57 Felon li bracca senza dare tregua né scampo, ne vengono fuori solo grazie al tempestivo intervento di Hang Man, che ha l’aspetto di Ice Man ( anche il nome suona simile)e il caratterecorroborato ad ottani di ego, di Maverick.  

Sorvolando sulla verosimiglianza per cui in una base di un non precisato esercito nemico ci sarebbe un caccia modello secolo scorso e per giunta perfettamente integro e funzionante, dove il film avrebbe meritato maggiore attenzione è nella anonima rappresentazione dei piloti avversari. Di tutte le citazioni recuperate, quella che avrebbe avuto maggior ragione è la definizione della nemesi. In Top Gun gli assi dell’aviazione sovietica e i loro leggendari Mig-28 sono ammantati da un alone di timoroso mistero. Le riprese sono al servizio di questa suggestione al punto dal mostrarli come degli alieni, algida e suggestiva metafora per dare forma al nebuloso universo sovietico celato dietro alla Cortina di Ferro. Nel sequel, ancorché si assista a sequenze spettacolari non abbiamo nulla che ci si avvicini. Solo la sequenza col caccia che appare col sole alle spalle restituisce quel senso insondabile di minaccia ma è davvero poco.  È lecito domandarsi se non si stia spaccando il capello in quattro, Top Gun Mavericksurclassa di gran lunga la qualità media dei titoli in circolazione eppure lascia quel retrogusto amaro dell’occasione non completamente raggiunta o forse, raggiunta tardivamente.

Trentasette anni a cavallo tra due secoli e millenni sono un oceano temporale difficilmente copribile anche se voli a Mac 10, quel Top Gun era la suggestione aerea ma non meno scintillante e patinata di Miami Vice, era la versione da MTV di Rambo, questo film incarna invece non pochi limiti della narrazione contemporanea e tuttavia su un punto vince sul prequel sei zero, sei zero, Jennifer  Connelly non solo è ancora straordinariamente avvenente ma funziona decisamente meglio nell’amalgama formale con Tom Cruise rispetto alla sovrastante Kelly McGillis di cui il grande cinema ha perso le tracce senza particolari rimpianti.

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