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Kobra Kai 4, la quarta serie della saga cinetelevisiva è la più elaborata e complessa...

Aggiornamento: 7 feb 2022

...ma anche la più fiacca e avvitata sull'equivoco tra difesa e attacco. Per la quinta si auspica più ritmo e meno lacrime

Nata come web serie ideata da Josh Heald, Jon Hurwitz e Hayden Schlossberg, recupera i personaggi principali, dei quali ricostruisce gli ultimi tre-trentacinque anni di vita, gli antagonisti e persino quelli minori dei tre Karate Kid che dall’84 invasero con planetario successo le sale di ogni Paese del globo. Il primo, in particolare, è stato in grado di scrivere una delle pagine cinematografiche più rappresentative del decennio. Autentica parabola umana e sportiva che ha al suo centro l’adolescente Daniel La Russo e l’anziano Maestro Miyagi, diretta con mano esperta da John G. Avildsen, che con questo titolo riesce a bissare per profondità, spettacolarità e potenza suggestiva, la clamorosa affermazione di Rocky, capolavoro diretto nel decennio precedente. E anzi, non è azzardato affermare che Rocky sta agli anni 70, come Karate Kid, al decennio successivo. Un film che è insieme generazionale e romanzo di formazione in cui convergono tutti i tratti distintivi della società giovanile degli anni 80, mescolati con archetipi universali che ne fanno un’opera di ottimo intrattenimento e al tempo stesso una superba allegoria di concetti come il bene e il male, la solitudine e il conformismo, lo sport come valore e non come metafora del conflitto.

Il film declina uno dei temi portanti del filone giovanile statunitense del periodo, il conflitto relazionale tra giovani e adulti, un tema persistente che con registri differenti attraversa titoli come Breakfast club, Taps, Rusty il selvaggio, I Ragazzi della 56esima strada, Bella in rosa, Risky business, Class. Superato lo scontro dialettico tra giovani e istituzioni che segnò il decennio precedente, il contrasto si sposta nelle case, nelle scuole, nelle palestre. Il film sviluppa con tocco poetico il tema del mentore e del giovane apprendista, il quale, attraverso la pratica apprende lezioni di vita che lo aiuteranno a diventare uomo. L’intera pellicola è ammantata da canoni estetici decisi, l’amore e la brutalità, tanto quanto la contemplazione e il fragore vi coabitano come parte del Tao. Karate Kid consacra Ralph Macchio, già acclamato interprete de I Ragazzi della 56esima strada nel ruolo di Johnny Cade (Coppola gli affidò uno dei tre ruoli più importanti, gli atri due andarono a Matt Dillon e C.Thomas Howell), a stella di prima grandezza del cinema giovanile. Macchio mette insieme in un pugno di anni altri titoli rilevanti come Ultimi echi di guerra e soprattutto Mississippi Adventure, oltre a Mio cugino Vincenzo nel quale è però un comprimario, e incasellati tra questi, gli altri due episodi della saga, poi si eclissa in film di piccolo e medio cabotaggio e scarsa rilevanza. Nel 2018 torna al personaggio che vale una carriera.

La serie è interessante, asciutta, quasi sperimentale, anzi, forzatamente sperimentale a causa del budget ridotto all’osso. Ma se vale il detto fare di necessità virtù, la serie si attesta come uno è uno dei casi più brillanti. Ritroviamo Danny ma soprattutto, il suo antagonista, quel Johnny Lawrence, interpretato da William Zabka che nel primo film era la rappresentazione del bullo. Belloccio, ricco, rispettato, leader della scuola e capobanda caricato a pallettoni della squadra di karate, Cobra Kai, che spadroneggia ad All Valley. Di scintillante gli è rimasto ben poco, è un anacronismo vivente. Tutto se stesso è cristallizzato negli anni d’oro, quegli ottanta che di virtuale avevano solo Max Headroom e il massimo del digitale erano i Game boy. La musica era su cassette, si rimorchiavano le ragazze, non c’erano i profili social e se vincevi un torneo eri l’eroe della Valley. Non si è mai ripreso dalla sonora sconfitta rimediata da Danny, che brucia ancora come una ferita sanguinante e che ne ha segnato il proseguo della sua esistenza costellata da fallimenti. A Danny è andata decisamente meglio. Vende auto a colpi di slogan costruiti su doppi sensi che rimandano ai suoi successi come karateka, è sposato, ha una moglie splendida e due figli. Anche Johnny ne ha uno, ma non si parlano da anni.

Il successo delle serie su You Tube porta denaro e il progetto cresce. Trasloca su Netflix. Sviluppa temi su temi, aggiunge personaggi. L’intreccio di vicende e relazioni è al servizio di un cambio di prospettiva. Niente più buoni e cattivi tagliati con l’accetta, sono tutti simultaneamente l’uno e l’altro. La serie guarda alle cause come fattore che ingenera le conseguenze. Lawrence non è sempre stato un arrogante attaccabrighe, anzi era un ragazzino sensibile e vessato dal ricco patrigno, un giorno la sua curiosità è catturata da una voce che impartisce comandi. Si affaccia a una vetrina, è attratto come da un magnete. Ciò che vede è una specie di rivelazione, varca la porta d’ingresso e la sua esistenza subirà una svolta tanto imprevedibile quanto fatale: è entrato nella temutissima fabbrica di spietati karateka, il dojo del Cobra Kai diretto dal sensei John Kreese. Ma il confine tra rinuncia agli stereotipi in favore di un maggiore realismo e un melenso registro all’insegna dell’assoluzione è labile. Sulla scia di un sentimentalismo persistente e di un realismo didascalico, le dinamiche deflagrano. È indubbiamente la più articolata, questa quarta serie, e anche la più costosa ma è la più deludente. I toni da soap opera sono sempre più vistosi. I personaggi sono caricaturali. Johnny Lawrence che propone tutto convinto di far mettere la parrucca a Alitosi è una gag demenziale. Lo Russo, spremuto come un limone è un personaggio insipido, ed è un peccato perché invece in Karate Kid, ma anche nelle prime tre stagioni, era un gran bel personaggio. La moglie paga pegno alla cultura delle girl power. Prima è troppo saggia, seria, quadrata. Poi è una deficiente egocentrica che s’infila in un casino dietro l’altro nel reiterato tentativo di rappresentare il ruolo forte, strabuzzando gli occhi perché il figlio butta l’immondizia.

Apprezzabilissimi i ritorni delle due fiamme giovanili, specialmente quello di Elisabeth Shue, ex “oggetto” del contendere dei due che col suo riapparire ricolloca le storie con entrambi dove devono stare, e cioè nel passato. Affascinante e frizzante quanto basta per rubare la scena a entrambi ma misurata e discreta nell’uscire di scena senza fanfare. Molto evocativo anche l’incontro in Giappone con Kumiko, e apprezzabile la scelta di non involgarire la grazia dell’incontro con una scappatella.

Tornando ai figli, nella ripetizione quasi da mantra del termine “famiglia” che per gli americani ha un senso differente, il plot dominante è il pessimo rapporto tra genitori e figli. E avvenendo in una società in cui i figli non si fanno più, è forse l’aspetto più fantasioso di questa serie improntata sulla riaffermazione a tratti compulsiva di un realismo come detto, didascalico a scapito degli archetipi che invece specie nel primo film, erano l’essenza stessa di Karate Kid.

Il ritorno di Silver (Thomas Ian Griffith), all’insegna del ripescaggio antologico, è surreale.

Obbligati della narrazione corrente del cattivo-vittima, Kreese è un eroe reduce e incompreso, e fino a qui… Silver gli è legato da un debito di riconoscenza, il che non è esattamente una novità, lo era già nel terzo capitolo cinematografico e gli costata cara…ma attenzione perché qui si sviluppa l’ennesima sottotrama. E difatti tra colpi di scena che rimandano più a Ridge e Brooke che a un programma d’impronta drammatico-d’azione, la serie rilancia continuamente. Il rischio di smarrirsi avvitandosi su se stessa è dietro l’angolo, come insegnano Lost, Suits e tante altri telefilm (negli anni ottanta questi programmi si chiamavano così), che non hanno capito quando era il momento di fermarsi.

Nella quinta Sato rientra in gioco. Lo avevamo lasciato in Giappone oltre trentacinque anni fa, sconfitto e deriso dal karateka gaijin. Dopo un’apparizione nella terza serie, in cui i due si riconciliano, nella conclusione della quarta, prega sulla tomba di Miyagi. A questo punto attendiamo con trepidazione il più che probabile recupero di Mike Barnes (Sean Kanan) per chiudere il cerchio. Va comunque riconosciuto lo sforzo dei sceneggiatura per fare sì che ogni recupero rientri nella narrazione in modo organico, non solo come semplici camei decorativi, inoltre Kanan era un karateka sul serio. E proprio sul fronte delle coreografie che questa quarta serie si fa apprezzare particolarmente. I combattimenti sono curati alla perfezione, le sequenze sono davvero spettacolari. Una doverosa chiosa va fatta circa l’equivoco che in modo reiterato ridimensiona colpevolmente il sottotesto del ciclo di film e per conseguenza schiaccia la serie su una cifra didascalica: il Karate è una disciplina di difesa? Sì, ma unicamente su un piano filosofico. E cioè sulle intenzioni che ne sottendono l’esistenza. Non va impiegato per aggredire ma in caso si venga aggrediti. Questo fatto ha in sé tutta una visione della vita che è alla base della differenza tra Miyagi e Kreesse, ma la differenza per quanto vasta si ferma alle ragioni dell’applicazione e non all’applicazione stessa. Cioè a dire che non c’è un Karate di difesa e uno di attacco. Il Karate è difesa-attacco. Ma anche, attacco-difesa. In sostanza, il distinguo tra la visione di Lawrence e Lo Russo è artificioso, di un manicheismo fine a se stesso che travisa filosofia e dialettica con l’applicazione. In nessun caso può esserci unicamente una dinamica di combattimento unicamente difensivo e unicamente d’attacco. Va comunque riconosciuto che il livello medio della preparazione degli attori è buono.

Ottimo anche lo sviluppo psicologico dei tre giovani protagonisti: Falco, Miguel e Robby sono tre personaggi indovinatissimi, così come funziona a meraviglia la vicenda del giovanissimo kenny Payne, Dallas Dupree Young, bullizzato dal figlio cretino di Lo Russo e la sua mini gang, finché il ragazzino non si stanca di essere agnello e diventa lupo. Insomma, alla fine della fiera, se questa quarta serie di Cobra Kai risente dello spirito del tempo e dello stile in voga negli studios, ed è la più debole delle quattro, il format si segnala come il caso più riuscito tra gli spin off, sequel, prequel che affollano cinema e tv ma ci vuole una svolta. Più ritmo, meno lacrime.

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