Ho aspettato tanto, tantissimo, vicinissimo al troppo, forse.
La Redazione mi aveva chiesto di fare una recensione del nuovo album di Paul Mc Cartney, MCCARTNEY III, già dalla sua uscita, avvenuta il 18 Dicembre scorso.
Ho iniziato, poi mi sono interrotto, poi ho ripreso, poi ci ho ripensato. E con somma pazienza di Pier Luigi Manieri che mi ha concesso altro tempo, ne sono venuto a capo.
MCCARTNEY III non è un disco che può essere recensito dopo un primo ascolto. Neanche dopo un quinto od un sesto.
Gli album di Macca sono così. O ti stravolgono al primo giro di puntina, oppure vanno metabolizzati e compresi successivamente, a volte è capitato anche a distanza di anni.
Ho letto le cose più disparate sull’ultima fatica, dal capolavoro al flop, dalla genialata al non aver più nulla da dire. Come vi dicevo però, l’attesa ha fruttato, anche solo per fredda questione di numeri. Già, perché a distanza di 29 anni (da Flowers in the Dirt) l’ex Beatle è tornato in testa alle classifiche UK. Non solo, da pochi giorni lo è anche ufficialmente in USA ed in Italia, un mercato dominato dalla trap, dalle nuove uscite di Luciano Ligabue e Claudio Baglioni, ha debuttato in decima posizione, arrivando però al secondo posto per quanto riguarda i vinili, dietro solamente all’edizione 40° Anniversary di Dalla, il capolavoro del 1980 del cantautore bolognese.
MCCARTNEY III per quanto mi riguarda non può essere recensito in modo classico, canzone per canzone. È uno stile di vita, un’idea, una forma di ribellione. Ribellione alle regole del mercato discografico, alla attuale forma canzone “strofa-ritornello entro 30 secondi-no assolo” con cui anche lui stesso in passato ha scritto pagine di storia della musica.
Se vi aspettavate che a 78 anni Paul tirasse fuori la vena artistica beatlesiana di Flaming Pie, gli arrangiamenti sperimentali alla Radiohead di Chaos & Creation in the Backyard o una confezione accattivante come Egypt Station, forse non ne avete compreso il senso .
Con MCCARTNEY III Paul decide di regalare al pubblico qualcosa che era destinato a se stesso. Suonato tutto da solo durante il lockdown, è forse il racconto delle sue emozioni vissutein quel momento, il pensiero di una rockstar che inizia a tirare le somme, seppur guardando sempre avanti. E lo fa consapevole che se lo può permettere, al contrario della stragrande maggioranza dei suoi colleghi.
Regole zero, dicevamo. Paul suona tutti gli strumenti e ne incide uno alla volta, vedendo semplicemente la sua sensibilità, il suo sentire, dove lo avrebbe condotto.
Undici tracce che, come vi ho già detto, possono lasciare sconcertati i classicisti del poprock e degli arrangiamenti alla moda, che ci regalano però qualcosa che da decenni ormai è difficile da ascoltare: la totale anarchia dell’artista, la possibilità di fare quello che si vuole del proprio disco, delle proprie canzoni, il non scendere a compromessi con nessuno.
Ed in fondo scendere a compromessi, soprattutto con il pubblico, è la grande rovina della musica di oggi. Perché un artista dovrebbe scendere al livello degli ascoltatori, guadagnando magari un porto sicuro e mettendosi qualche spicciolo in più in tasca, e rendere però la propria musica “liquida”, scaduta dopo pochi giorni, come il latte lasciato fuori dal frigorifero?
Apprezzare un disco, gustarselo, è un lungo processo di digestione, che anche nel mio caso, non è stato semplice.
Poi ho ascoltato e riascoltato soprattutto alcuni pezzi. Il primo con cui si apre l’album, credo sia l’emblema: “Long Tailed Winter Bird”, un lungo mantra chitarristico, intervallato da brevissime frasi cantate, supportato da un basso potente e da una batteria cruda, suonato dallo stesso Paul. Ed immaginiamocelo Paul, concentrato, trasportato, ad incidere questo mantra che tanto lo deve aver preso. Viviamolo come se stessimo lì, ad ascoltare sul momento. Aprite la mente e lasciatevi andare. Se dal vivo ci sperticheremmo le mani, perché non pensare che possa funzionare su un album?
Altri pezzi degni di nota (ma data la particolarità del lavoro si tratta di qualcosa di estremamente personale) possono essere Pretty Boys, forse la traccia più vicina ad uno stile Flaming Pie, con un arpeggio che si presta a melodie e riff delicati e suadenti, che a un certo punto sembrano abbracciarci, quasi a dire “sono sempre io, il vostro Paul”;
Women And Wives, nella quale forse torniamo ad ambienti alla Memory Almost Full;
Lavatory Lil, il classico intermezzo rockettaro che si suona al centro di una scaletta per sciogliere un po’ le dita e movimentare l’ambiente;
Deep Deep Feeling, quasi 9 minuti di sensazioni, dubbi, verità. Può risultare pesante, ma forse è il Paul in versione lockdown.
In Slidin’ entra fragorosamente la batteria del fido Abe Laboriel e si sente subito. Potrebbe stare benissimo in Driving Rain, altro album di notevole livello, penalizzato solamente dall’essere uscito dopo Flaming Pie.
The Kiss of Venus ci ricorda la vena romantica anni ’70 che aveva caratterizzato alcune produzioni Wings, potrebbe essere benissimo il sottofondo di una passeggiata a due. Per piccioncini.
Uno dei pezzi più interessanti, in cui abbiamo un arrangiamento più complesso e forse ci avviciniamo alla canzone classica è Seizethe Day, in cui Macca tira un po’ le somme, quello che ha visto e quello che vedrà.
Perché ragazzi, se il Fato ce lo permetterà, Paul McCartney non solo avrà ancora tante cose da vedere, ma sfornerà altre canzoni per noi poveri mortali che ancora ci aspettiamo qualcosa di diverso dai prodotti preconfezionati e plasticosi. Qualcosa che non ha bisogno di tre strati di cellophane per nascondere la superficialità e la carenza artistica e di contenuti che purtroppo lo streaming sta tentando di inocularci in vena come la morfina.
Comments