Il regista Emanuele Scaringi: “Dirigere un film d’orrore in Italia è molto impegnativo anche perchè viene ancora considerato un prodotto di serie B”
Nel Belpaese il mondo dell’orrore, dalla letteratura passando per il fumetto sino al cinema, è sempre stato malvisto. In generale tutto il mondo che oscilla dal fantastico al noir, nonostante i successi, è sempre stato mal considerato. Invero le radici sono antiche e risalgono al senatore del Regno Alessandro Manzoni che tuonava contro scritti che potevano turbare il fanciullo. Nel dopoguerra le linee di pensiero culturali, gramsciana da una parte e crociana dall’altra, hanno sempre deviato buona parte della cultura nostrana verso generi più “colti” e “impegnati” sino ad arrivare alle massime, manichee e superficiali, di Fruttero&Lucentini.
Ricordiamo che il nostro cinema horror ha padri nobili come Fulci, Bava, Argento ed Avanti e ha creato due sottogeneri non trascurabili quali il thrilling e il poliziottesco. Ahinoi certi preconcetti, però, sono duri a morire. Difatti una pellicola pregevole quale Pantafa del talentuoso Emanuele Scaringi uscita lo scorso marzo ha avuto, ingiustificatamente, poca visibilità. Si è dovuto attendere il Cinema Mancini di Monterotondo che, nell’ambito dei cineforum del lunedì, ha ritrasmesso il film con in sala il regista e altri suoi collaboratori permettendo al pubblico di poter gustare un prodotto notevole.
Pantafa è la storia di Marta, interpretata da una sempre in forma Kasia Smutniak, che decide di trasferirsi insieme alla figlioletta Nina in uno sperduto paesello abruzzesse dal singolare nome di Malanotte. Fin da subito l’ambientarsi in un contesto così distante, non solo fisicamente, da quello urbano non è dei più facili. Tutta la comunità è in fermento per una festa locale ossia la notte della Pantafa. Ma cos’è la Pantafa? Nel foloklore del centro Italia è una figura femminile che di notte si poggia sul petto dei bambini discoli portando via loro il respiro. Nina inizia ad avere crisi notturne e a sentire una presenza invadente e inquietante...
Scaringi dirige un horror che mescola, sapientemente, la demologia con la quotidinità in un lento crescendo di paura. Una paura che si può leggere dietro le pieghe di una realtà comune e talvolta anonima. Un film a tratti psicologico ma che ha un forte “sapore” demartiniano. Nell’ambito della serata monterotondina Scaringi ha risposto ad alcune domande del pubblico presente in sala.
Pantafa si dimostra un film accurato e decisamente molto inpegnativo.
Sì è stato un film impegnativo e complesso un pò anche per le difficoltà che il genere horror richiede che spesso viene ancora considerato come un prodotto di serie B. Solo la scrittura mi ha portato via diversi anni e le riprese hanno richiesto sette settimane anche se divise in due tempi.
L’horror italiano quindi è rimasto sopito?
In un certo senso sì ma si sta risvegliando. Anche se non riesce ad avere ancora una degna visibilità. Basti pensare a Guadagnino il cui film aveva tutte le carte in regola per essere un successo ma, inspiegabilmente, a Venezia ha avuto una blanda accoglienza. Posso dire che adesso il folkhorror si sta facendo strada e io stesso ho sviluppato questo interesse in scrittura. Infatti è assurdo che in America, che hanno pochissimi elementi mostruosi o folkloristici, sfornano film in gran quantità e di successo mentre in Italia abbiamo tutte le nostre regioni piene di miti, tradizioni e leggende e non le sfruttiamo.
Il cinema di genere italiano ha però un passato di tutti rispetto e dei padri nobili che cosa è cambiato?
Molti dei successi di Argento o Avati risalgono a più di quarant’anni fa. La società e cambiata, siamo cambiati noi e anche l’industria del cinema. La difficoltà un pò è questa che non siamo più preparati a scrivere e a girare un film horror. In un certo senso dobbiamo ricostruire un’industria, un pubblico e anche la distribuzione.
Qual’è un elemento che è stato portante nella gestazione di questo film?
Sicuramente la quotidiniatà. Abbiamo voluto rinunciare ad alcuni elementi più semplici e comuni dell’horror come il Jump scare, gli scricchiolii e altro per puntare più su una situazione comune in cui tutti potessero immedesimarsi. Di notevole aiuto ed ispirazione sono state pellicole come The Visit, Get Out, The Babbadock e Lasciami entrare e quindi abbiamo voluto creare un nostro mostro. E, studiando questa leggenda, abbiamo scoperto che in quasi ogni regione d’Italia esiste una figura simile. Anzi tale essere diventa il minimo comun denomitare di altre culture visto che troviamo esseri simili anche in Giappone e Messico.
Dove sta andando adesso il cinema horror nostrano?
Diciamo che fare un film horror in Italia oggi richiede un mix di coraggio e incoscienza perchè rischi di restare bloccato. Per me contano le storie e ritenevo che l’orrore fosse la chiave migliore per raccontare un rapporto madre-figlia. Non so, onestamente, dove sia diretto il nostro cinema horror perché ognuno cerca la propria strada per raccontare quello a cui tiene di più. E talvolta anche per caso sia crea un filone difatti questo discorso può essere esteso anche ad altri generi come il thriller o l’azione.
Quale elemento è fortemente incisivo in questo contesto storico?
Stiamo vivendo un periodo in cui l’autorialità è finita quasi tutta in mano alle piattaforme. Per cui quando arriva un determinato filone è perché sono le piattaforme a richiederlo e questa è una cosa abbastanza pericolosa. Ad esempio tempo fa assieme ai miei collaboratori abbiamo fatto una serie tv poliziesca chiamata L’Alligatore che hanno chiuso alla prima stagione. Purtroppo se non fai un Rocco Schiavone e segui determinati diktat delle serie tv sei fuori.
Per quanto concerne la distribuzione, che in Italia talvolta è un male endemico, come si è trovato il suo film?
Intanto abbiamo dovuto lottare per non avere il divieto dei 14 anni che inficia, e non poco, la distribuzione e la visibilità della pellicola. Un esempio e la distribuzione dei trailer che deve essere fatta solo nella fascia seriale e con esso l’assenza di spot pubblicitari. Anche se è passato il divieto +6 alcune emittenti non te lo passano perchè è comunque un horror. Anche le affissioni non si fanno poichè si decide di spendere in altro modo. Gli esercenti, non tutti, decidono che il circuito in cui il film deve essere distribuito è quello dei multiplex complessi che non sono in centro città e che spesso trasmettono in determinate, e scomode, fasce orarie. A questo si aggiunga anche che talvolta la mancanza del divieto disincetiva i più giovani a vederlo perchè lo sminuiscono pensando che non faccia paura.
Com’è stato lavorare con la Smutniak?
Molto formativo e molto interessante. Kasia è una professionista ed una perfezionista. Ogni attore ha un proprio metodo di recitazione lei deve sapere dall’inizio alla fine tutto quello che succede. Il personaggio era stato scritto pensando a lei. Ci è voluto molto a convincerla anche perchè era la sua prima incursione nell’horror. Difatti l’ho rassicurata che non avrebbe avuto paura durante le riprese del film. Lei ha fatto un lavoro titanico poichè, si può dire, che tutto il film si poggia sulle sue spalle. Lei si è impegnato moltissimo col personaggio poichè ha messo a nudo anche alcune cose sue personali.
Se dovessero chiederle raccontare il film cosa risponderebbe?
Io vorrei che questo film fosse letto in più modi. Io lavoro sul tema della difficoltà di un rapporto tra una madre e una figlia e voglio esplorare il tutto attraverso tutte le sfaccettature possibili. La mia è un’opera aperta in cui lascio anche volutamente dei buchi perchè è lo spettatore che deve andare a riempirli. Ad esempio ho voluto fare un azzardo spostando i punti di vista poichè nella prima parte la protagonista è la mamma dopo il focus si sposta sulla figlia. E’ una cosa rischiosa, poichè si rischia di rompere l’immedesimazione dello spettatore, ma sono lieto di averla fatta.
Comments