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Perchè continuiamo a riguardare “Conan il barbaro”

È passato da non troppe settimane il quarantennale di quello che senza timore di smentita possiamo considerare il più bel film genuinamente fantasy di tutti i tempi: “Conan il barbaro”.


Arnold Schwarzenegger. John Milius. Basil Poledouris.

Per questo trio, ai cui vertici si ritorna ogni qual volta si riparla della pellicola in questione, mai troppe lodi. Ovviodunque che le celebrazioni siano state anche occasione per rimarcare l’eccezionale alchimia che ha unito ai tempi attore protagonista, regista e compositore: si tratta infatti del classico caso in cui un quidindefinibile ma palpabile porta un intero progetto ad assurgere al rango di capolavoro, ben al di sopra della canonica “somma delle sue parti”, in questo caso somma di talenti.


E tuttavia, quando a ben otto lustri di distanza si riaccendono le luci sull’epopea del barbaro che conosce e vive in base al segreto dell’acciaio, molto spesso continuiamo a leggerne la vicenda secondo coordinate non sempre acconcie: quelle puramente cinematografiche o, per contro, quelle letterarie.


Si dirà: è inevitabile, e tutto sommato anche giusto. Si tratta di un film, e ispirato a un personaggio nato su carta. Fare diversamente non solo non si può, ma quasi non si deve, posto che entro gli ambiti citati non mancano certo le chiavi di lettura più disparate, i paradigmi più acuti e in grado di evidenziarne aspetti ancora da sviscerare del tutto.


E invece, forse, sarebbe il caso di provare a uscire da questa pur ragionevole dicotomia. Non solo perché Conan, più che un film, è una “storia narrata per immagini”, e il suo protagonista – più che dalle pagine di Howard – arriva dritto dalle tavole Marvel di John Buscema.

Questo, tra gli appassionati, è noto. Ma anche perché il nostro barbaro è ben più dell’aggiornamento in salsa ottantiana del nichilismo malinconico del suo inventore, distillato dopo il passaggio nel crogiuolo della visione miliusiana. Ed è altro anche rispetto al contenuto della casella con sotto l’etichetta “storia di formazione”, cui si sarebbe tentati pur con qualche ragione di infilarlo se lo vedessimo come semplice film.

Quindi? Non è solo un’avventura cinematografica; non è la riscrittura di un racconto, originale o meno; ha la sua ragion d’essere nell’immagine ma non è né un fumetto né – qualcuno potrebbe pensare anche questo – una sorta di apologo morale. Come leggerlo?

Forse, come una riproposizione di quella saggezza che dice: “conosci te stesso”. Un punto di massima tensione (anche estetica) capace di rappresentare la pura volontà di potenza, uscita vincitrice dalla sbornia ideologica degli anni precedenti, e che sale sul podio in una veste fieramente titanica.

Milius, in fondo, l’aveva detto fin dall’inizio, riportando in apertura la citazione nietzschiana “Ciò che non ti uccide, ti rende più forte”. In apparenza, distico che per alcuni non stonerebbe sulle labbra del Conan originale, quello di “Nascerà una strega” o “L’ora del dragone”, ma che in realtà solo in bocca a Schwarzy nel 1982 acquista la valenza di vero e proprio “segreto dell’acciaio”: la barbarie primigenia, che nei racconti howardiani è uno stato di natura non imitabile, eternamente precluso all’individuo che ha assaggiato il frutto marcio della civiltà, nel film è qualcosa che lo stesso Conan è chiamato ad acquisire pienamente tramite un discepolato all’insegna del metallo. Barbarie che coincide con il superamento di ogni debolezza, anche quella del dolore e dell’amore.


Ma perché, allora, si diceva che la pellicola di Milius, non può essere assimilata a un romanzo di formazione? Perchè l’andamento della vicenda non procede per accrescimento, ma per sottrazione. Conan acquisisce la possibilità di andare incontro al suo destino quando, a vario titolo, distacca sé stesso dalla vendetta, e anche dall’amore: si libera dall’influenza che i rapporti con gli altri hanno su di lui, quali che siano, e scopre “l’acciaio” della forza interiore. Il contrario, a ben guardare, di quanto sostenuto da James Earl Jones-Thulsa Doom nel suo altrettanto celebre monologo sulla radice nascosta che soggiace alla potenza dell’acciaio. Non è neanche la profonda motivazione, di nuovo, il secretum secretorum, perché altrimenti – diciamolo – a Conan sarebbe ben bastata la meditazione di un’intera giovinezza passata a spingere l’insensata Ruota del Dolore.

In questo senso il Doom di Milius, rielaborazione di una rielaborazione di una rielaborazione (Howard ne offrì due diverse successive versioni, di cui una a lungo inedita, i fumetti Marvel una ulteriore sintesi) assurge al ruolo di vero e proprio Guardiano della Soglia, la cui sconfitta pura e semplice non basta a “passare oltre”. Ecco perché vediamo Conan, dopo la battaglia finale, meditare a lungo. La vittoria l’ha svuotato interiormente. Cosa lo riempirà?


Qualcuno, d’accordo o meno con un simile ragionamento, potrebbe obiettare sulla necessità di tirar fuori tutto questo ora, che di anni ne sono passati ormai 40. E dire che forse bastano gli allori della celebrazione dovuta, invece di analisi fuori tempo massimo.

E invece, parlare di “Conan il barbaro” serve, almeno se si vuole capire ad esempio perché un bel film come “The Northman” di Robert Eggers, che dal lavoro Milius pesca non poco, non riesca ad andare oltre la bontà pur notevole della sua realizzazione. Perché, cioè, non sia in grado di innescare, come avvenne a suo tempo, un filone simile a quello dei film “conaniani”, con le loro alterne vicende qualitative e contenutistiche. Ai tempi, infatti, anche i più arraffoni della pura e semplice formula “spade e mutande di pelo” avevano intuito che sotto sotto un qualche tipo di messaggio c’era, sintetizzabile in una specie di richiamo della foresta. Oggi nessun barbaro ci guida nel bosco, e si vede.


Nel suo richiamare gli archetipi del fantastico, nel parlarci di noi senza impelagarsi in metafore o psicologie pessimiste, Conan resta senza eredi, e su questo piano solo il pressoché coevo “Excalibur” può stargli vicino senza timore di essergli inferiore. Anche nel bezzo di una stagione, la nostra, nella quale l’elemento fantasy appare preponderante nelle produzioni internazionali, nessun film usa il linguaggio dei simboli in maniera cosciente, e il contenuto occasionalmente buono viene nella maggior parte dei casi ammazzato dai limiti imposti dal contenitore, alla faccia della crossmedialità che in teoria permetterebbe di fruire di una storia come film, videogioco, fumetto e via dicendo.


A suo modo, dunque, parliamo di Conan come di un intruso, di un prodotto che – alla maniera del suo protagonista – non conosce o ignora volutamente le regole della civiltà, e quindi non si ferma di fronte a barriere che altri, anche solo inconsciamente, non osano superare. Non è un caso, soprattutto, che ciò avvenga ad opera di un personaggio in tutto e per tutto fantasy, linguaggio che pure ha subito e subisce pesanti tentativi di domesticazione proprio perché in grado di comunicare direttamente all’interiorità senza bisogno di traduttori. Ecco perché Conan il barbaro va rivisto anche dopo quarant’anni, e probabilmente per i prossimi dieci: per reimparare che l’alfabeto del Fantastico è uno di quelli che rende capaci di scrivere e raccontare grandi storie. Quelle che sì, fanno un po’ paura, e che però sono le sole che – lo vediamo – colpiscono nel segno e si fanno ricordare.

Sempre che, dopo la sbornia di fantasie gentili e rassicuranti come Harry Potter e compagnia, ci sia ancora qualcuno che abbia voglia di ascoltare.

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