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Cibo & Vino - Tra viticoltura ed enogastronomia: un viaggio nel territorio laziale

Aggiornamento: 11 dic 2020


Sebbene il vino fosse già diffuso in Grecia e non solo, il Lazio ha rappresentato un punto d’inizio importante per la cultura sin dai tempi degli Etruschi. Il Lazio è invece fondamentale per l'affermazione del nome che appunto è di origine etrusca e una volta entrato nel vocabolario latino, si espande in tutto il mondo. Durante l’Impero Romano, in particolare in epoca augustea, accresce la proliferazione d'impianti ed esplode il consumo del vino.


I Romani non bevevano vino “puro”, piuttosto quasi sempre mescolato con acqua, spezie o miele (vino detto corretto o “condito”), ritenendo non consono bere vino “assoluto”, in quanto destinato unicamente alle libagioni agli Dei. L’aver dedicato ad un dio, Bacco, ereditato dal Pantheon greco in cui è chiamato Dionisio, chiarisce quanta rilevanza i romani attribuissero al vino.Con la caduta dell’Impero le tecniche enologiche si sono conservate nei monasteri.


La curia romana ha di fatto contribuito alla diffusione di viticoltura ed enologia, i nobili ed i conventi possedevano i torchi per la pigiatura delle uve e con la sistematica diffusione dei missionari cristiani in giro per il mondo per diffondere il verbo, la vite approderà in tutti i continenti. Il Papato ed i nobili romani hanno l’oggettivo merito di aver dato impulso costante alla viticoltura e nel corso dei secoli, attraverso il suo commercio, i papi hanno finanziato la costruzione di importanti monumenti come Fontana di Trevi." E così, pian piano, i vini del Lazio divennero famosi ad un pubblico internazionale.

Il territorio Laziale, prevalentemente collinare e di origine vulcanica, si presta a diverse forme di allevamento vitivinicolo che danno origine a vini dinamici e minerali, sapidi e diretti. Con circa ventimila ettari vitati suddivisi in quattro macro aree questa meravigliosa regione offre per la maggior parte uve a bacca bianca; fra questi è impossibile non citare il Grechetto, un vitigno di carattere che presenta vini longevi, adatti ad elevazione in barrique, ottimi come base spumante, freschi e con tannini leggeri.


Un interpretazione interessante di questo vitigno ci viene proposta in purezza da Sergio Mottura, nella medievale Civitella D’Agliano, che con il suo approccio biologico mostra a pieno le caratteristiche del territorio e la sua tipicità. Attraverso il suo IGT “Latour a Civitella”, uve fermentate in barrique di rovere francese, Mottura viene definito dal Gambero Rosso “ il miglior interprete di Grechetto al mondo”.


Contrariamente a quanto si possa pensare ed ai soliti luoghi comuni su come i vini bianchi si abbinino meglio al pesce, questo tipo di vino sposa perfettamente le carni bianche come oca o coniglio ed al contrario tende a coprire sapori più delicati a causa della sua spiccata e netta mineralità. Immaginate una calda domenica primaverile, un agriturismo immerso nella natura in compagnia di una persona cara con cui condividere un’esperienza sensoriale, una passeggiata a piedi nudi sull’erba appena tagliata ed i primi fiori che iniziano a sbocciare; questo è ciò che ritroverete nel bicchiere. Il sole ci riporterà ai riflessi dorati del vino, la natura ci metterà in contatto diretto con il territorio, l’odore del fieno, sentori vegetali, note di fiori gialli come margherite e camomilla ed una sapidità che ci ricondurrà ai baci rubati in mezzo al mare.


Da non sottovalutare assolutamente le uve a bacca rossa che offrono uno scenario diverso ma non per questo meno interessante, anzi. Un blend esemplare ci arriva dalla provincia di Latina e viene proposto da Casale del Giglio con “Mater Matuta” in una miscela di uve prevalentemente Syrah e l’aggiunta di Petit Verdot; queste vengono fermentate separatamente con lieviti indigeni e affinate in barrique ventidue mesi per poi risposare e prendere piena forma in bottiglia dai dieci ai dodici mesi. Questo vino, che si presenta limpido e compatto, si mostra subito avvolgente e sensuale e di un colore rosso rubino intenso con sfumature porpora. Al naso è evidente una nota cioccolatosa e speziata, pepe nero e confettura di amarena; non si smentisce al gusto ma piuttosto conferma la sua morbidezza e persistenza. Per questa bottiglia cambia lo scenario, potremmo trovarci in un piccolo e particolare ristorante della capitale piuttosto che avanti ad un camino in una cascina di montagna fatta in legno. Personalmente trovo che la peculiarità di questo blend sia la sua versatilità negli abbinamenti; che sia con una fetta di provola affumicata o una mai banale matriciana, un calice di questo vino ci farà vivere un seducente wine tasting.


Rimanendo in tema di rossi, un’altra etichetta che sento di dover citare è sicuramente l’IGT “Habemus”, prodotto da San Giovenale sotto la cura di Emanuele Pangrazi. In un contesto a dir poco eccezionale, in cui la natura si incontra in perfetta armonia con ciò che l’uomo ha creato, nasce questo vino muscoloso, di grande carattere e complessità. Nell’incontaminata e selvaggia Tuscia Viterbese, il Pangrazi ha una visione ambiziosa, innovativa e biologica che si scosta dalla tradizione: ricreare una piccola Vale del Rodano nel territorio Laziale. Per farlo, sfrutta i terreni pietrosi ad impasto argilloso e coltiva Grenache, Syrah e Carignan. Queste uve, dopo la vinificazione, riposano venti mesi in barrique e altri sei mesi in bottiglia dando vita ad un vino equilibrato che in pochi anni è diventato uno dei rossi di riferimento di tutta la regione Lazio. Inchiostro, rubino intenso, al naso si lascia andare in un piacevole ed elegante vortice di profumi; confettura e frutta matura a polpa rossa sono i sentori che aprono le danze, seguiti da note speziate e tostate, pepe e cannella. Il sorso è avvolgente ed egocentrico, tannini nobili, fresco e caldo al tempo stesso, caratterizzato da importanti ritorni fruttati nel retrogusto come visciola e marasca. Un rosso di grande struttura che resta però di una straordinaria eleganza. Questa bottiglia, dimostra che anche nel Lazio si possono produrre vini con vocazione internazionale. Eccezionale e visionario l’abbinamento con il cioccolato fondente, classico ma raffinato invece è il connubio con la selvaggina.


Questi tre produttori esaltano la grandezza e la varietà di offerta che questa regione per anni “dimenticata” ci propone. Tra vulcani e mare, terreni unici, vigne antiche ed un clima mediterraneo eternamente favorevole, il Lazio ha faticato ad emergere per trovare interpreti degni di tanto valore. Ma ad oggi, grazie a produttori illuminati e ai nuovi emergenti, si presenta fra i più attivi ed innovativi del paese. Resta sicuramente un territorio ancora da scoprire dove molte aziende produttive vocate dalla qualità hanno solo bisogno di essere conosciute ed apprezzate dal grande pubblico. Non tutte le regioni hanno la fortuna e la fama della Toscana, ma di questo ne parleremo la prossima volta!

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