Lo avevamo lasciato morente mentre precipita nelle acque melmose. Lo davamo per spacciato ma come da migliore tradizione, viene trascinato a riva da provvidenziali correnti e tratto in salvo dalla sua squadra. Tyler Rake, mercenario specialista in recuperi ed esfiltrazioni di ostaggi, si ritira a vita privata nella nevosa boscaglia austriaca e qui, fuori da ogni contatto umano, in cui gode della sola compagnia del suo cane e di una coppia di galline, viene raggiunto da un mediatore che lo ingaggia per una missione che lo riguarda personalmente: deve portare fuori da un carcere di massima sicurezza ai confini del mondo, la moglie e i figli di un detenuto che li tiene lì con sé. A complicare una missione che si preannuncia ai limiti delle possibilità, ci si mette il fattore personale: la donna è sua cognata.
Tyler Rake accetta nonostante sia ancora convalescente e abbia un braccio ancora appeso al collo. Comunque dopo una serie di esercizi per rimettere tono muscolare, in cui snocciola l’oramai consueto repertorio costituito da pesi da trascinare e ciocchi di legna da affettare in sostituzione dello pneumatico da percuotere a mazzate, ricostituisce la squadra e parte alla volta della prigione. E tutto ciò che può andare storto, ci va.
Diretto dal regista e stunt, Sam Hargrave, già autore del primo e scritto da Joe Russo che è anche coautore della graphic novel che lo ha ispirato, è un buon action, con un paio di cose da ammirare: la scena in cui Rake e la sua partner (Golshifteh Farahani), se ne stanno appesi nel vuoto e i piani sequenza. Ben due. Uno all’interno della prigione e uno sul treno. Da John Wick tre in poi, il piano sequenza sembra conoscere un nuovo periodo di prosperità cinematografica. In Tyler Rake 2 (Extraction 2) ne ammiriamo due lunghissime sequenze estremamente dinamiche, in cui regista e cast dimostrano di saperci fare.
E ci sanno fare eccome, però a conti fatti si accontentano dello standard Netflix, vale a dire, piccoli film con grandi cast. Film rassicuranti nella loro omologata ripetitività in cui lo spettatore è quasi chiamato a un gioco di ribaltamenti. I colpi di scena sono congeniati non per sorprendere ma per compiacere. Compiacere lo spettatore che vedrà svolgersi davanti agli occhi esattamente ciò che aveva previsto potesse accadere. È un cinema premiante quello che mette in scena la piattaforma ed è un cinema che accenna, allude ma resta in superficie. Le stesse location sono ciò che sono unicamente grazie alle didascalie in sovraimpressione. L’esotismo imposto da James Bond è più evocato che mostrato, tant’è che Amalfi è tutta in una camera da letto.
Se Idris Elba è poco più di una comparsa, Olga Kurylenko è un rimpianto. Confinare la sua avvenenza in due minuscole scene è un suicidio. Lei interpreta l’ex moglie. A separarli un dolore che non può essere lenito. La sottotrama sarebbe anche apprezzabile se non fosse che è qualcosa di maledettamente già visto, come del resto i dialoghi sono un concentrato di frasi riciclate da decine di altri titoli, specie quelli tra il protagonista e Elba. Eppure al netto di tutti questi cliché spudoratamente abusati, il film funziona. E lo fa perché, sorretto dalle spalle possenti di Tyler Rake, si lascia guardare e benvolere. Il film ruota interamente sulla vena interpretativa di Chris Hemsworth che è come un lingotto, non si deprezza col passare del tempo. Malgrado passi falsi come MIB international, il suo rapporto col pubblico è più saldo che mai.
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