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Abbate, Elkann e il dandismo che non c’è

Fulvio Abbate non disdegna i paradossi e le sfumature che virano per tonalità surreali. Se questa è la sua cifra estetica, non deve stupire la sua difesa di Alain Elkann, balzato su ogni profilo social a causa di un testo piuttosto modesto ma rivelatore.


Manifestando vicinanza ad Elkann difendo il diritto al dandismo, all’alterità, all’invettiva contro ogni osceno quotidiano esistenziale, al fastidio stesso verso l’umano condominiale. Il diritto a riconoscere se stessi in quanto individualità, ciò che spetta a ogni artista, scrittore, fuori da ogni moralismo ricattatorio e risibilmente cerimoniale. Ripeto: l’idea del consenso non può riguardare lo sguardo di un artista.”. Secondo lo scrittore, l’ex genero di Gianni Agnelli sarebbe un dandy e come tale va accolta benevolmente la sua altezzosità. Abbate scomoda l’alterità ma non si comprende verso cosa. Elkann viaggia in prima classe, il che lo pone nel suo ambiente, i ragazzi sarebbero dunque degli intrusi? Per viaggiare in prima classe è sufficiente pagare il supplemento. Acquistando il biglietto dieci minuti prima della partenza, il sovraccosto è di una manciata di euro. Questo se il treno è vuoto.


Ma l’invettiva debole e chiassosa di Elkann a cui Abbate si accoda, pone una questione etica. Quindi il proletario deve ricordarsi di esserlo per trecentosessantacinque giorni l’anno? Al popolino concediamo case popolari tristi, grigie e impersonali, auto patetiche, Sky e DAZN, i mobili Ikea, il sushi all you can eat, ma lì si ferma. Ammesso che i giovani tatuati che parlano di gnocca, lo siano. Elkann riferisce di tatuaggi vistosi e di un italiano stentato, più o meno, il ritratto di Lapo, suo figlio.


Proseguendo nella disamina, Elkann dà prova di una durezza che non gli si riconosceva. Inflessibile ai limiti della spietatezza. Una spietatezza beffarda, quei ragazzi che lui mortifica sono figli della società che la classe dirigente a cui appartiene ha disegnato per loro. Ma uscendo dall’analisi sociologica spicciola, se quel testo fosse stato firmato da uno tra Borgonovo, Sgarbi, Facci, Veneziani, Porro, Senaldi, Bechis, cosa avremmo letto? La deriva fascista, etc.… etc.… diciamo che gli è andata di lusso? Bene ha comunque fatto la redazione de La Repubblica che ha preso le distanze.


Chiaramente Abbate non ha idea di cosa sia, un dandy. Oppure lo sa e gioca sul filo sottile del paradosso. Nel dubbio, glielo chiariamo. L’abito di lino non fa il monaco e neppure ti rende un Brummell. I dandy sono un fatto di stile. Non basta un completo di lino blu, ancorché “stazzonato”, una stilografica e un fascio di giornali in una cartella di cuoio, per esserlo. Un dandy ostenta ma non elenca ciò che è, in didascaliche descrizioni utili a definirlo. L’abito sartoriale del dandy parla da solo. Se il dandy sente il bisogno di formalizzare, ha sbagliato definizione, non è un dandy ma un gagà. Nel suo caso, attempato ma comunque, gagà. Il dandy ripudia ciò che è grossolano ma non ciò che è naturale. Per questo, bersaglio di ogni autentico dandy è la borghesia. Costretta in moralismi e convenzioni, non è si eleva verso l’alto e non si abbandona all’istinto che appartiene al popolo. Ma qui stiamo facendo accademia.


Le classi sociali sono sempre mono distinguibili. Tuttavia, come l’inarrivabile Wilde insegna, i dandy non hanno mai disprezzato il volgo. Ne sono attratti e incuriositi, e lo sono perché rappresentano una realtà aliena e distante ma vera. Il più dandy di tutti, Giacomo Casanova, un dandy ante litteram, non faceva distinzione tra nobildonne e cameriere. Ha avuto più di cento amanti, erano tutte contesse? A letto erano tutte ugualmente desiderabili.


D’Annunzio era un dandy. Tutta la sua intera esistenza fu consacrata all’estetica. Un’estetica trascendente fatta di forma, sostanza e azione. George Byron, lo fu fino in fondo. L’ineffabile autore del Don Giovanni morì di malaria mentre combatteva per la causa greca.


Secondo Abbate, uno che mal digerisce il volgo, combatte per una rivoluzione? Wilde frequentava le osterie dei quartieri poveri di Londra. Dove possiamo ravvisare in questi comportamenti un disprezzo per il popolo? Gozzano e Marinetti appartengono a pieno titolo alla categoria mentre in tempi più recenti, Bryan Ferry, David Sylvian, Simon Le Bon e Tony Hadley, sono stati esempi di stile, modelli di inarrivabile eleganza e di ricerca incessante della grazia. Saremo miopi ma in che modo Elkann può essere anche solo lontanamente assimilabile a Casanova, Byron, D’Annunzio, Gozzano, Sylvian? E questo ci porta all’altra parte della questione, sempre a suo dire, l’artista può essere snob.


Ebbene, su questo, sia pure parzialmente, concordiamo, l’artista, può permettersi di essere altezzoso ma solo se è autorizzato dalla sua statura intellettuale che a sua volta trova definizione nella sua opera. In fondo è proprio la sua diversità nella percezione della realtà a consegnarlo all’Iperuranio. Però non sarebbe male se questo privilegio fosse esercitato in dispute intellettuali piuttosto che rimproverando agli altri passeggeri di non mostrare sdegno nei confronti dei giovani coatti tatuati. Vale la pena precisare che dandismo e snobismo si escludono a vicenda. Per il dandy non conta distinguersi. È destinato dal suo pensare e agire a essere un ‘fuori-classe. Viceversa, la missione dello snob non è la differenza ma il privilegio. Lo snob anela una classe sociale elevata, desiderio corroborato da un sentimento d’inferiorità a cui contrappone una sfrenata ambizione. Tornando a Elkann, è un discreto scrittore e un apprezzabile giornalista ma di preciso, in cosa si sarebbe distinto l’ex genero di Agnelli per una tale celebrazione e corposa difesa? Alain Elkan è un uomo esageratamente fortunato. Nulla di disprezzabile, la fortuna è una virtù ma definirlo un dandy è un’iperbole che non giova. Apprezzabile tentativo, degno di un amico sincero ma finisce col peggiorarne la posizione perché poi se scattano i confronti, ne esce demolito.


Ma forse Abbate ha ragione.

Ogni epoca e nazione hanno i dandy e gli artisti che si meritano.

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