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Il latte della lupa

Ogni qualvolta ci si ritrova a celebrare il Natale di Roma (e in 2775 anni, di occasioni ce ne sono ben state) si corre sempre il rischio di imboccare due strade ben battute, rivelatesi però nel tempo due comodi vicoli ciechi.

La prima è la più semplice: ah, le glorie dell’Urbe! I marmi, l’Impero, il sole che splende sui Fori oggi come nei giorni di Augusto e Traiano! E’ facile bearsi di tanta magnificenza ancora lì, a portata di mano. Altrettanto, a poco prezzo si gusta il sapore dolce amaro della mestizia, constatando quanto lontana sia l’epoca d’oro.

La seconda via, è anch’essa ben nota. Fustighiamoci. Quanto è indegna la Roma di oggi, quanta bruttura. Le periferie, il sudiciume, per non parlare degli abitanti, così antropologicamente diversi – decaduti – rispetto ai loro antenati che invece bla bla bla…

Insomma, ogni 21 aprile, invece che parlare di Roma, ci si piazza davanti a una cartolina, si rivede per la centesima volta Ben-Hur, oppure ci si guarda allo specchio, usandola come misura per dir male di noi. Del resto, per molti, e soprattutto per gran parte dei romani stessi, la città resta un enigma, di quelli che nessuno ha davvero voglia di indagare, figuriamoci sciogliere.

E’ questa, probabilmente, la più grossa differenza tra i vecchi discendenti di Romolo e noi, che pure siamo all’estremità attuale di quel filo che si dice eterno. A loro, persino alla plebe della Suburra, Roma non gliela dovevi toccare. E non c’era ancora la squadra di calcio omonima. Oggi invece, nonostante ci sia chi faccia professione di un orgoglio un po’ sguaiato, sono spesso i romani a dire male di casa loro, e ahinoi con qualche ragione. Sovente però esagerano, e arrivano essere cattivi, negando persino di essere figli di questa madre bistrattata.

Montanelli, eterno pessimista – che come un corteggiatore deluso il quale poi mastica amaro riguardo tutte le donne, così fece con gli italiani – non perdeva occasione per rimarcare che poco o nulla ci legherebbe a quel popolo che visse nella nostra stessa città illo tempore.

Eppure, nonostante la polvere di un impero caduto e di infiniti altri travagli, andando a cercare in mezzo a chiese, vicoli, e perfino oltre il cinturone d’asfalto del Raccordo. la filiazione c’è, si può trovare. Hanno voglia, certi soloni, a disquisire di spirito universalistico di Roma, di come si diventi romani per “battesimo spirituale” senza essere mai una volta scivolati su un sampietrino o essere stati minacciati dai gabbiani sul Lungotevere. Certo, esisterà pure quello, chi lo vuol negare, accidenti. Ma almeno oggi, parliamo di noi, è il compleanno di casa nostra. La commistione di eredità genetica, di ineluttabile sedimento culturale, e sì, di fatalismo indolente che si ritrova oggi negli abitanti dell’Urbe è unica. Altri la immaginano, la capiscono, la intuiscono. Qui la si vive. L’enigma di cui sopra, ovvero l’eternità della città a dispetto di tutto, risiede proprio questo.

Forse sarà qualche stilla dell’antico latte lupino che ancora gli scorre nel sangue, ma i romani de Roma restano ancora riconoscibili, fossero pure feccia plebea per cui Romolo è il nome non del primo dei sette re, ma dei sette nani. Guardi il viso di un benzinaio sulla Portuense, e, cribbio sembra la copia vivente di un busto di Vespasiano, vecchio sangue sabino. Osservi una vecchietta segnarsi piamente ad un’edicoletta lungo via Po’, ed ecco una solenne matrona, devota ai Lari compitali. Li vedi in giro, i trisnipoti di Cesare.

E dunque, come festeggiare il Natale della città eterna? Forse, faremmo cosa saggia a brindare non solo alle sue vetuste e gloriose colonne, ma, dopo esserci raccolti all’ombra del Colosseo, anche ad alzare i calici – gesto antico come e più dell’Urbe – alla salute di chi tutto sommato compie la fatica più improba: portare sulla schiena il fardello di viverci, di sottoporsi al perpetuo confronto tra come era e com’è, e al rischio di come potrebbe diventare se certe cose continuano ad andare come vanno.

Che gioia e delizia di Roma è che tutte le strade, buone o cattive, continuano a portare lì.

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